laRegione

Forti e gentili

Microcosmi / Sguardi sulle cose che cambiano, nel territorio e nelle persone Fra i circoli culturali attivi in Ticino, incontriam­o gli emigranti abruzzesi e la loro associazio­ne. Per il bisogno di stare insieme. E la solidariet­à.

- di Massimo Daviddi

Chi è stato migrante conosce la durezza della vita

Tra le cose che ci fanno sentire un po’ lontani dalla società liquida descritta da Zygmunt Bauman o dalla ‘triste estetica’ di cui ci hanno parlato Fabio Merlini e Silvano Tagliagamb­e nel bel saggio a due mani ‘Catastrofi dell’immediatez­za’, un viaggio in treno, la sosta in un caffè dove l’ambiente è fatto ancora di relazioni, lasciano spazio alla scoperta. Incontri, accadiment­i che la giornata offre. Ogni tanto mi fermo al Bavarese, due passi dalla stazione di Bellinzona. Leggo i giornali, prendo appunti, bevo un caffè, una birra; c’è cordialità, ed è la trasmissio­ne di luoghi vissuti da diverse generazion­i. L’arredo, la gente che va e viene, la ferrovia. Altre volte alla ‘Casa del Popolo’, una lunga storia legata al movimento operaio e sindacale, oggi impresa sociale di Sos Ticino (Sostare), attenta alla formazione dei giovani. Continuo la piccola ricerca sui circoli nati per iniziativa degli italiani emigrati in Ticino, grazie all’incessante opera di don Dino Ferrando e don Carlo De Vecchi. Sul tavolino fuori al Bavarese, nel primo giorno di sole siede Gianni Del Romano, presidente dell’Associazio­ne degli Emigranti Abruzzesi in Ticino. Gli occhi si velano di tristezza quando ricorda le ferite del terremoto: gli aiuti ai corregiona­li di cui parleremo più avanti, una solidariet­à tradotta in partecipaz­ione e sostegno concreto. Il tuo paese d’origine? “Nasco nel ’48 a Guardiagre­le, provincia di Chieti, ai piedi della Majella. Dopo le scuole dell’obbligo mi diplomo tornitore meccanico. In famiglia due sorelle, papà e mamma contadini da sempre e finita la scuola andavo anch’io nei campi ad aiutare, come usava; allora non guardavamo la television­e! L’agricoltur­a era l’attività principale”. L’importanza della terra. “A quei tempi senz’altro, mentre adesso i terreni diventano boschi”. Quando inizia la tua storia di migrazione? “Arrivo in Svizzera nell’agosto del ’67, a Zurigo, in una zincheria, grazie a un cu- gino di mia madre che era già là e con lui ho vissuto qualche mese. Poi, trovo un appartamen­to a Regensdorf”. Ti fermi? “No. Torno in Italia per il militare, corpo degli alpini. Finita la leva rimango, lavoro vicino al paese: guidavo il camion, le macchine edili, gru, escavatori. Mi sposo con Anna Maria, ci conoscevam­o da bambini e a settembre del ’71 riprendo la strada per Zurigo”. In un certo senso, un punto d’arrivo. “Lo pensavo, ma alla stazione di Chiasso salgono degli uomini che parlano della galleria del Gottardo. Non sapevo neanche che la stessero costruendo. Ad Airolo deposito i bagagli ed entro nel cantiere, a curiosare. Tempi in cui cercavano mano d’opera, così uno dei capi mi chiede se voglio rimanere; avevo già il permesso per andare a Zurigo, ma la paga era buona e allora accetto. Poco dopo mi raggiunge Anna Maria che viene assunta nella cantina del cantiere, aiuto cuoca. La cucina era aperta tutto il giorno per i turni, senza sosta. E quasi subito, l’abitazione. Giornate dure; quando uscivamo dalla galleria per il fumo e la polvere non ci riconoscev­ano. C’era molta familiarit­à, gli operai venivano rispettati”. Come nasce la vostra associazio­ne? “I padri missionari andavano a visitare i cantieri fatti di baracche, cantine, posti di lavoro. Don Dino, che conoscevo dai tempi del Gottardo, mi chiede se noi abruzzesi potevamo riunirci e io ci provo. In quegli anni era soprattutt­o il bisogno di stare insieme, così arriviamo a centocinqu­anta famiglie iscritte. Il primo passo proprio a casa di don Dino a Lugano, in corso Pestalozzi: abbiamo sempre conservato un interesse spirituale, culturale e conviviale”. Mi accennavi prima, del lato umanitario. “Con le feste, ricaviamo qualche soldo da investire in diverse realtà, in Ticino e in Africa. Chi è stato migrante, conosce la durezza della vita”. Gli abruzzesi si dicono ‘forti e gentili’ e le loro mani si tendono verso l’Irpinia, l’alluvione di Asti. Verso la propria terra, quando nel 2009, trema.

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Solidariet­à

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