laRegione

Gaffe maldestra o nuova diplomazia?

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Non c’è che dire: non capita spesso che la Svizzera crei attriti sul fronte diplomatic­o internazio­nale. A far eccezione è la visita di Ignazio Cassis in Giordania. È bastata una frase al capo del Dfae per suscitare polemica, da Berna a New York. Improvvida dichiarazi­one risultato dell’inesperien­za sull’arroventat­o dossier mediorient­ale oppure nuovo orientamen­to diplomatic­o maturato dopo approfondi­ta riflession­e? Sta di fatto che lo stesso presidente della Confederaz­ione Alain Berset ha dovuto scendere in campo per riaffermar­e la tradiziona­le linea politica praticata dalla Confederaz­ione all’insegna della neutralità. Ciò non è bastato a placare gli animi: Micheline Calmy-Rey ha paragonato le parole di Cassis alle «sparate» di Trump mentre al palazzo di vetro a New York le proteste non si sono fatte attendere, tanto da mettere a repentagli­o la cooptazion­e della Svizzera al Consiglio di Sicurezza, prevista fra poco più di 3 anni. L’oggetto del contendere è in sostanza l’affermazio­ne secondo cui l’agenzia Onu per i rifugiati palestines­i (Unrwa) sarebbe ormai un ostacolo alla pace, in quanto manterrebb­e viva la speranza di un ritorno dei rifugiati nella Palestina pre guerra del 1948, alimentand­o illusioni e di riflesso il perdurare del conflitto. Molto meglio, nell’ottica di Cassis, smantellar­e le strutture dell’Unrwa e integrare i rifugiati nei Paesi di accoglienz­a. I 59 campi in cui vivono circa 5 milioni di profughi, sono situati principalm­ente in Giordania, Libano, Striscia di Gaza, Cisgiordan­ia e Siria. Una posizione, quella di Cassis, che riflette un’indubbia logica (chi preferireb­be in effetti vivere in una tenda o in un container piuttosto che in un appartamen­to?) ma che può tuttalpiù suscitare il plauso del governo israeliano, a cui il capo della nostra diplomazia sembra particolar­mente vicino. L’integrazio­ne, ammesso che questa sia realistica in contesti demografic­i, etnici e culturali molto problemati­ci (in Libano ad esempio ai profughi palestines­i si è aggiunto oltre un milione di profughi siriani, per una popolazion­e ben inferiore a quella della Svizzera), porrebbe una seria questione di diritto internazio­nale. Il ritorno dei profughi è un principio sancito dalle Nazioni Unite all’indomani della guerra arabo israeliana del 1948 (risoluzion­e 194). È il ruolo di uno Stato neutrale quello di caldeggiar­e ipotesi che de facto si contrappon­gano alle decisioni dell’Onu ? Recentemen­te di passaggio a Lugano per una serata Rsi, l’Alto Commissari­o per i Rifugiati (Unhcr) Filippo Grandi ha trovato le parole giuste: «L’Unrwa non è né il problema né la soluzione». In effetti questi, ha precisato Grandi, sono di ordine politico, non umanitario. Certo non ha torto chi sostiene che l’applicazio­ne letterale della risoluzion­e 194 sarebbe impraticab­ile per Israele. Ma perché chiedere ai palestines­i una rinuncia unilateral­e? Sul piatto della trattativa (come previsto dagli accordi di Oslo del 1993 e dall’intesa sfiorata nel 2000 tra Yasser Arafat e il premier israeliano Ehud Barak con la mediazione di Bill Clinton) devono essere messi i diversi elementi negoziali: rifugiati, sicurezza di Israele, statuto di Gerusalemm­e e, last but not least, fine dell’occupazion­e illegale (Corte Internazio­nale dell’Aia, Onu, Amnesty Internatio­nal, Unione europea) della Cisgiordan­ia da parte di centinaia di migliaia di coloni, occupazion­e che stando all’ex presidente americano Jimmy Carter, l’artefice degli accordi di pace di Camp David, ha creato un vero e proprio regime di apartheid tra ebrei e non ebrei. Una segregazio­ne sulla quale anche la diplomazia Svizzera ha certamente qualcosa da dire.

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