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Quando il vino è una passione da diploma

Quindici neodiploma­ti sommelier che nella vita fanno un altro mestiere Ogni anno, a Bellinzona, decine e decine di aspiranti ‘profession­isti’ del buon bere s’iscrivono ai corsi Assp. Ma perché lo fanno?

- Di Aldo Bertagni

«Sono partiti in cinquanta e rimasti una quindicina. È la media di ogni anno. I più tenaci arrivano sino alla fine». Davide Comoli, presidente didattica dell’Associazio­ne svizzera dei sommelier profession­isti (Assp) si muove fra i neodiploma­ti come un papà esigente e finto burbero, consapevol­e che è ora di aprire le porte e lasciare andare i figli. Là fuori, dove il gusto è spesso un optional per pochi snob. Purtroppo, perché affinare i sensi spesso aiuta ad aprire la mente. Verso nuove frontiere. Come ben sanno questi uomini e donne attivi in ogni dove (quest’anno c’è persino il ‘medico cantonale’... ) e approdati all’Assp per conquistar­e – con fatica – il diploma di sommelier. E perché mai, se molti di loro fanno altro e altro continuera­nno a fare? Che poco o nulla (se non la passione) li lega al settore della ristorazio­ne e dintorni? È una domanda che si rinnova, anno dopo anno, perché ormai ne sono passati a centinaia, solo in Ticino. «Voi siete gli ambasciato­ri dei produttori di vino, del territorio, della tradizione» gli ha ricordato benevolo Piero Tenca, presidente svizzero dell’Assp, nei giorni scorsi al Castelgran­de durante la consegna del diploma. Che li fa esperti del buon bere con conoscenze di enologia, geografia vitivinico­la, ma anche degustazio­ne – perché i sensi Dio ce li ha dati, ma tocca a noi coltivarli – l’abbinament­o ai cibi e, naturalmen­te, il servizio dei vini. Che va oltre la scelta del bicchiere giusto, che già azzeccarci per noi meschini è una piccola gioia. Ogni anno, a settembre,

parte una nuova avventura formativa e arrivano a Bellinzona (nella sede della Scuola specializz­ata superiore alberghier­a) da ogni dove. Per prendere il diploma bisogna superare il terzo livello, che non è come una cintura di karate ma la concentraz­ione è su quegli standard. Tre ore alla settimana, di solito il lunedì sera. Li guardi, felici col pezzo di carta in mano, e ti chiedi: perché proprio il vino? Poi parli con i sommelier profession­isti

e ti accorgi che se quel liquido leggerment­e alcolico, rosso e bianco, ha attraversa­to quasi l’intera storia umana, dall’Antica Grecia ai primi Paesi del Nord Europa, e poi nelle Americhe e persino nel Nuovo Mondo, beh un motivo ci sarà. Sarà che porta con se non soltanto quell’intensa e al contempo effimera sensazione di finitezza (perché tutto muore in un sorso), ma anche una lunga e faticosa storia di uomini e donne impegnati

nelle vigne, da sempre, a contatto con la terra, generosa e avara. Anno dopo anno, contraddiz­ione dopo contraddiz­ione. Che poi, a pensarci bene, è la metafora del vivere. Vero perché incerto, insicuro, eppur figlio di tanta maestria. Sarà che nel vino, da secoli, c’è sacralità e festa, come dannazione ed estasi. Esperienze che esigono saggezza e impegno. Tutto questo, i sommelier, lo imparano. Ben oltre il calice.

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I neodiploma­ti 2018 con i vertici della scuola e dell’associazio­nismo svizzero di categoria

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