La storia che indosso
Si chiama ‘rivista’, ma è un vero e proprio libro che ogni anno apre più finestre sulle letterature della Svizzera, i loro autori e traduttori. ‘Viceversa’ è nelle librerie con racconti inediti, approfondimenti, conversazioni e illustrazioni con cui portare ai lettori le voci più interessanti fra gli autori elvetici di oggi. Fra i tanti (Ruth Schweikert, Pierre Lepori, Jérôme Meizoz, Francine Wohnlich, Virginia Helbling...), ecco un ‘ospite’, Hamed Abboud, con ‘La storia che mi porto addosso’: in un’epoca di pantaloni corti e carni generosamente esibite, dentro e fuori i libri, il suo ci pare un punto di vista significativo...
Un testo erotico, ecco cosa devi scrivere, mi provoca un amico: descrivere il tuo corpo, e poi quello di una donna, scoprirli fino in fondo, nei minimi particolari, vedere quello che ti si rivela quando sarete soli sulla carta. Una simile provocazione non può che mettermi a disagio, io che non ho mai scritto di corpi, né del mio, né di quello di altri. Può anche darsi che qua e là siano comparsi dei baci, un «ti amo», niente di più. La questione ha radici molto profonde, ha a che fare con la mia personalità, che con il passare del tempo ho imparato a conoscere. Ma questa conoscenza non è di grande utilità in simili frangenti. Per essere afferrate, le radici vanno sfrondate, solo così il groviglio assume una forma intellegibile.
Della mia infanzia, va detto, mi rimangono soltanto tre fotografie. La mia famiglia aveva altro a cui pensare, probabilmente, e non si è curata di documentare la nostra giovinezza. Oppure di fotografie ne aveva molte, ma ha dovuto abbandonare tutto quando in Algeria è scoppiata la guerra civile ed è stata costretta ad andarsene. Non ho mai chiesto se esistessero degli album, ho preferito non sapere, anche per evitare l’imbarazzo di dover mostrare ad altri, famigliari o estranei, immagini di me nudo: io che faccio il bagno, o mia madre che mi rincorre per vestirmi. L’imbarazzo sarebbe forse stato liberatorio, ma mi è stato negato. In una di queste fotografie noi tre fratelli indossiamo dei completini di jeans del medesimo colore, gli abiti della festa che nostro padre era riuscito a procurarsi a buon prezzo per l’occasione. Un ricordo insignificante. Vestiti in quel modo, tutti uguali, sembriamo tre scolaretti con le loro uniformi. Nulla che esca dall’ordinario. Un completo classico per il lavoro in Turchia, un paio di jeans per il viaggio dell’esilio, degli shorts neri per uscire dal campo, per le visite informali, si intende. Ogni luogo richiama alla mente altri luoghi. Ne ho attraversati molti, prima di arrivare qui, nel Burgenland, e i ricordi, anche i più remoti, sono estremamente vivaci. È da quando non sono più un ragazzo che ho interiorizzato determinati codici. Per esempio, quando vado a trovare un amico anziano, un ex giudice dall’onorata carriera, o la mia vicina, un’insegnante anche lei ultrasessantenne che organizza le sue giornate secondo tempi e rituali precisi, non indosso mai pantaloni corti. Nemmeno d’estate.
Anche adesso che sono ormai un uomo fatto, continuo ad ascoltare rispettosamente le loro parole. In Siria è così: sono gli adulti più anziani a trasmettere il sapere ai giovani. Poi anche i giovani diventano vecchi e, arrivati in cima alla catena alimentare, la parola passa a loro. Prima però bisogna ascoltare, annuire, evitare di entrare in contraddizione e di aggiungere considerazioni che si fondano su un’esperienza limitata. Se proprio si desidera parlare in prima persona, bisogna trovare un interlocutore più giovane.
È un imbarazzo molto concreto, che ha probabilmente origine in un episodio banale. Eravamo in Siria, seduti davanti al forno di mio padre, come ogni giorno, a salutare clienti e passanti, quando mio padre si gira e mi apostrofa con modi che non ammettono repliche: «Sei grande adesso, e tra adulti non sta bene mostrarsi con gli shorts. A partire da oggi porterai i pantaloni lunghi». Forse voleva semplicemente dire che ero cresciuto, che non appartenevo più alla categoria dei bambini, e che a partire da quel momento certe cose non mi sarebbero più state concesse. È più che naturale quindi che non parli mai del mio corpo: tra chi legge potrebbe esserci qualcuno più anziano di me e mi è stato insegnato che in queste occasioni il corpo non va scoperto. Se mio padre non mi avesse proibito di indossare gli shorts probabilmente la mia vita avrebbe preso un’altra piega.
Certo, so benissimo che ognuno può cambiare la propria esistenza e darle l’impronta che desidera, che dopo un certo tempo ogni cosa può essere rivalutata: i consigli dei genitori, le abitudini, le tradizioni, le stesse usanze vestimentarie. Ogni armadio può essere riaperto, e di ogni singolo abito ci si può chiedere se sia ancora adatto a noi o meno, si può addirittura avere l’audacia di interrogare l’amico più anziano, e chiedergli apertamente: «La prossima volta, posso venire a trovarti in shorts e scarpe da ginnastica?».
Naturalmente, risponderebbe. Puoi fare quello che vuoi, siamo nel ventunesimo secolo, sei in Austria, non in Siria. Anche se lui stesso, ammette, appartiene alla vecchia generazione, ed è stato educato secondo rigidi principi cattolici: il suo personale bagaglio di usi e costumi non gli consente di portare dei pantaloncini corti, o forse, semplicemente, si vergogna di mostrare la magrezza delle sue gambe. Potrei addirittura presentarmi con quei pantaloni a mezza gamba che vanno tanto di moda, e manifestare così la mia disposizione al cambiamento, mettendo a tacere il pudore con l’istinto di ribellione.
Perché qui, vedi, a un anziano puoi chiedere quello che ti pare: puoi farti consigliare, raccontargli i fatti che agitano le tue giornate, e lui ti ascolta. La catena che unisce le generazioni si sviluppa in orizzontale, non in verticale. Puoi rivolgerti a un amico più anziano per nome, non con gli appellativi – zio, maestro, padre del tale – che ancora poco fa eri abituato a usare nel tuo paese.
Ogni cosa bella inizia svuotando e riordinando i propri armadi. Ma ci sono dei limiti: per esempio immagina se decidessi di metterti a nuotare senza vestiti. La piccola finestra aperta sulla tua infanzia bruscamente si chiuderebbe. Tua madre non potrebbe più scusarti con un sorriso: «È ancora così piccolo, innocente!». E se mio padre riteneva sconveniente presentarsi in shorts, immagina cosa avrebbe detto se un adulto
si fosse tolto anche quest’ultimo indumento.
Credo nella legge di gravitazione. Ogni corpo prima o poi è destinato a cadere, in un movimento che procede dall’alto verso il basso. Per esempio, le foglie dagli alberi d’autunno. Ma sono persuaso che le foglie cadano anche quando sotto gli alberi passa una persona nuda, per dirle: «Copriti, non mettere in imbarazzo te stesso e gli altri, ci sono cose che non dipendono dalla forza di gravità».
Per questo grondavo sudore quando, in piena notte, presidiavo il corridoio dell’appartamento che condividevo con alcuni amici, terrorizzato dall’idea che uno di loro potesse uscire dalla sua stanza, mentre la mia compagna, in tutta naturalezza, si avviava in punta di piedi verso il bagno, con una camicia che le copriva a malapena un terzo del posteriore. In quel momento il nostro corridoio non era per me diverso da una spiaggia di naturisti, e io ero ben oltre la linea rossa tracciata da mio padre a delimitare infanzia e età adulta.
Eppure, anche quelle notti devono essere archiviate tra gli eventi straordinari, se si vogliono vivere serenamente le proprie giornate.
Non voglio offendere il passato di nessuno, ma sono convinto che ognuno di noi abbia criteri personali per mettere in ordine i suoi armadi. E che a seconda del loro contenuto, in certi casi siano necessarie un’eleganza e una cura particolari, per evitare che un giorno ci esplodano in faccia, e le foglie cadano dagli alberi. «Copriti, non metterti in imbarazzo. La vita è un appuntamento formale, non ci si può presentare con l’innocenza dell’infanzia, tutto qui».
(Traduzione dall’arabo di Luisa Orelli)
Hamed Abboud è nato a Deir ez-Zor (Siria) nel 1987. Fuggito dalla Siria nel 2012, dopo varie tappe in Egitto, a Dubai e in Turchia, nel 2014 è giunto in Austria, dove vive tutt’ora. Alle prime pubblicazioni su giornali e riviste, nel 2012 ha fatto seguito la sua prima raccolta di poesie, ‘Matar al-ghaima al-ula’ (La pioggia dalle prime nubi). Nel 2017, il suo secondo libro, ‘Der Tod backt einen Geburts tagskuchen’ (in arabo con la traduzione tedesca di Larissa Bender) era fra i candidati per il Premio internazionale Haus der Kulturen der Welt.