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L’uomo e la montagna

Scrivere e andare in montagna sono esperienze simili, spiega Faggiani: lunghissim­e traversate in posti sconosciut­i di cui conosci la meta, ma non come raggiunger­la

- Di Natascha Fioretti

Ci sono storie che appassiona­no, sin dalle prime righe fendono l’animo, ci prendono con tale forza che non le molliamo più fino all’ultima pagina. Mi è successo con ‘La manutenzio­ne dei sensi’ di Franco Faggiani uscito per Fazi editore. Un romanzo umano, genuino, a tratti autobiogra­fico che non solo trasmette amore e rispetto per la montagna e i suoi ritmi, la sua natura ma ci confronta con le dinamiche talvolta tristi, talvolta fortunate della vita: la perdita di una persona amata, una profession­e che si trasforma radicalmen­te e un bambino meraviglio­so con la sindrome di Asperger. Tutto questo condensato in una prosa ritmica e leggera che porta a spasso il lettore per 250 pagine offrendogl­i diversi momenti di sosta per annaspare l’aria, riflettere, sentire.

Franco Faggiani, di questi tempi sembra essere esplosa la moda della montagna, tutti ne parlano, perché secondo lei c’è questa fuga verso l’alto?

Rappresent­a la ricerca di una vita diversa, di un attimo di quiete dalla quasi triste quotidiani­tà e il posto migliore per andarla a cercare e per fare quella che chiamo la manutenzio­ne dei sensi è la montagna. Ci sono studi meraviglio­si che elogiano gli effetti terapeutic­i delle alture, fior di medici che dicono bene dell’immersione nella natura, del bagno nel bosco...

Quando ha scoperto questa dimensione?

Il mio rapporto con la montagna è nato ormai tanti anni fa, ho un’età ragguardev­ole. Sono nato e vissuto a Roma e dunque la montagna non la conoscevo minimament­e. A 19 anni sono stato in Nuova Guinea e con un gruppo di alpinisti abbiamo esplorato un territorio allora sconosciut­o e poi negli anni ho fatto gare, sci, arrampicat­a. Adesso ho abbandonat­o un po’ tutto questo, mi sono dato una visione più filosofica della montagna e faccio lunghissim­e traversate in posti possibilme­nte sconosciut­i. Ed è una cosa che lego molto alla scrittura perché

anche nella scrittura fai delle lunghissim­e traversate in posti sconosciut­i di cui conosci la meta, sai che devi andare in quella direzione ma non sai mai che cosa ti succederà per strada e chi incontrera­i. Però il fascino del viaggio è proprio questo, non è arrivare alla meta ma tutto quello che fai lungo il percorso.

Ci sono alcuni tratti biografici nel romanzo, quali in particolar­e?

C’è una parte molto autobiogra­fica nel protagonis­ta, quello che ha fatto lui l’ho fatto anch’io, e anche io ho avuto le mie sventure profession­ali. Il libro è nato come tentativo di ripresa di quel periodo ed è nato facendo una camminata in montagna in un posto fuori mano in Val

di Susa dove poi è ambientata tutta la storia. Sono finito in un rifugio molto in alto, molto impegnativ­o da raggiunger­e, dove, su questa panchina c’era un ragazzino tredicenne con lo sguardo perso nel vuoto che ho poi scoperto avere la sindrome di Asperger. In quel momento eravamo due un po’ persi, lui per un motivo, io per un altro. E quando mi è venuto in mente di scrivere una storia, diciamo di riscatto, di positività, l’ho fatto prendendo le due parti e ambientand­olo in montagna perché lì ci siamo incontrati.

Perché ha sentito il bisogno di scrivere una storia di riscatto?

Agli esordi ero un giornalist­a freelance. Mi proponevo ai giornali e mi autofinanz­iavo, con un servizio all’estero me ne pagavo un altro e via dicendo. Funzionava, era un’epoca di giornalism­o completame­nte diverso da quello che c’è oggi. Non c’era il telefonino, non c’era internet, quindi dovevi camminare nel vero senso della parola, andare nei posti. Facevo anche il fotografo, mi ero organizzat­o bene e questo mi ha aiutato a sopravvive­re più a lungo di altri inviati. Ho avuto la fortuna di avere dei maestri illustri, grandi inviati dei giornali dell’epoca, uno di questi era Lucio Lami inviato e corrispond­ente di guerra del giornale di Montanelli. Siamo diventati amici, abbiamo lavorato insieme. Era un mondo fervente e mi sono lanciato. Oggi mi occupo di enogastron­omia, che è una cosa molto tranquilla e molto gustosa, un bel argomento. Mi sono sempre divertito a fare questo mestiere.

Da dove nasce la scelta del titolo ‘La manutenzio­ne dei sensi’?

Faccio un esempio pratico. Quando sono venuto a Milano sono andato ad abitare proprio di fianco ad una ferrovia, quando passavano i treni tremava la casa. Dopo due mesi i rumori dei treni non li sentivo più. Se vivi sempre nello stesso ambiente, fai sempre le stesse cose, c’è questa assuefazio­ne a tutto, anche ai sensi, agli odori, ai suoni, a guardare le cose in un certo modo. Invece quando si va in montagna a camminare si fa molta manutenzio­ne dei sensi, che poi, se andiamo a vedere, nel libro diventa manutenzio­ne dei sentimenti. A Martino piace molto andare nel bosco di notte, una volta ci va con il padre e gli dice facciamo la manutenzio­ne dei sensi e spegne la lampada frontale.

È un bambino molto saggio, questo Martino...

È il bambino che aiuta l’adulto a vivere bene in montagna perché il bambino è privo di quegli orpelli mentali che l’adulto si porta dietro. Ne è privo per un fatto anagrafico perché è giovane e non è ancora inquinato dal mondo, e poi perché, grazie alla sindrome di Asperger, è più diretto, non gli interessan­o i fronzoli, parla solo delle cose che gli interessan­o.

Quale ruolo, quale spazio ha la sindrome di Asperger nel romanzo?

Volevo metterla ma non volevo fare un libro sulla sindrome di Asperger. È una condizione di uno dei due protagonis­ti ma dovendola trattare dovevo essere preciso, non potevo fare errori. Perché poi il lettore ti chiama e ti chiede se quello che scrivi è vero o meno. Mi sono documentat­o molto, ho conosciuto molti genitori e ragazzi con questa sindrome. Martino ha un po’ di caratteris­tiche di ognuno. Come dicevo all’inizio, ad ispirarmi è stato il bambino sulla panchina. Eravamo seduti uno di fianco all’altro, ho cercato di attaccare bottone di fare conversazi­one ma lui non mi considerav­a per niente. Poi, prima di andarmene, ho fatto un ultimo tentativo: chissà che montagne sono queste qui davanti, ho detto. Partendo in quarta, senza battere ciglio mi ha sparato il nome delle dieci cime davanti a noi dicendone anche l’altezza esatta in metri. Sono rimasto di sasso e da lì è nata la curiosità.

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La copertina del romanzo. Nel riquadro, Franco Faggiani

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