Trump, Kim e la mano cinese
Per il suo “trionfo coreano”, il “bully-inchief” Donald Trump sembra disposto a tutto, o quasi. Anche a silurare, come ha fatto, il G7. Quindi a schiaffeggiare, come ha fatto, quelli che ormai teoricamente sono i suoi principali alleati (europei e canadesi), trattati alla stregua di fastidioso contorno alla sua ondivaga strategia politico-diplomatica-elettorale. Tanto vale, per “the Donald”, un primo faccia a faccia con Kim Jong-un, il giovane e crudele dittatore di Pyongyang, che ancora pochi mesi fa dava dell’“anziano rimbecillito” al 45º presidente americano, e che invece oggi incontra a Singapore convinto di (…)
Segue dalla Prima (…) assicurare così il futuro a se stesso e al proprio regime. Nella minuscola città-Stato, operoso simbolo dell’abilità e della furbizia finanziaria asiatica, va in onda lo show tanto atteso, l’incontro fra due narcisi che potrebbero anche riuscire là dove i tentativi di dialogo fra la “dinastia rossa” nordcoreana e una decina di presidenti statunitensi sono regolarmente naufragati. S’è anche detto, e si continuerà a ripetere, che l’unica spiegazione di questa clamorosa giornata è stata l’esibizione di forza militare con cui la superpotenza ha vinto una prima mano di poker al ta- volo di una trattativa che in realtà ha più incognite che certezze. Altri, più attenti, spiegano diversamente il “regalo” fatto a Trump da “little rocket man” che minacciava terribili (ma possibili?) rappresaglie atomiche sul territorio della prima potenza mondiale. Lo spiegano con una sola parola: Cina. In effetti, è ben visibile la mano di Pechino nella regia di questa rapidissima conversione del giovanotto di Pyongyang. Una mano al tempo stesso carezzevole (con gli aiuti economici ad un alleato poverissimo), assai paziente (quando il ragazzo ha dato qualche segno di baldanzosa autonomia), ma poi ferma e implacabile (quando si è trattato di imporre all’irrequieto alleato la svolta con cui i “nuovi mandarini” intendono salvaguardare i propri interessi). Ad un certo punto contraddetti, quegli interessi, dall’escalation militare WashingtonPyongyang. La sofisticata strategia imperiale dei cinesi non aveva interesse ad un surriscaldamento nel Pacifico, oltretutto con un’America che a Pechino sta offrendo preziosissime opportunità di occupare sullo scacchiere internazionale i vuoti lasciati dalla politica trumpiana (dal Medio Oriente all’Africa). Mentre l’eventuale obiettivo finale di denuclearizzare/smilitarizzare l’intera penisola coreana (che non dispiacerebbe affatto al mediatore di Seul, il “pacifista” Moon Jae-in) alla lunga potrebbe garantire a Pechino di consolidare una sorta di egemonia regionale, allontanando dal Sud reparti e testate nucleari statunitensi, oggi spina nel fianco del gigante asiatico. Solo fantapolitica? Certo, il summit di Singapore è soltanto il debutto di un percorso in gran parte sconosciuto, e imprevedibile, come del resto sono i suoi due protagonisti. Ma intanto non si può non notare come sia diverso il trattamento che il tycoon americano sta riservando alla Cina rispetto agli ormai presunti alleati della Casa Bianca: con Pechino la trattativa e gli accordi sui dazi, con l’Europa il diktat di super-tariffe alle importazioni, col pretesto che acciaio e alluminio devono essere “americani” per garantire la .... sicurezza militare della superpotenza. Per aver ricordato questo stridente paradosso, il canadese Trudeau si è beccato del “disonesto e debole” nell’immancabile twitter presidenziale dall’Air Force One che portava il capo della Casa Bianca al “capolavoro” di Singapore.