laRegione

Il reality di Singapore

- Di Erminio Ferrari

Se sarà servito a evitare (o solo ritardare, chissà) una guerra nucleare, allora l’incontro tra Kim Jong-un e Donald Trump non sarà stato inutile, né sarebbe intelligen­te augurarsen­e il fallimento in virtù della repulsione che suscitano l’uno e l’altro. È bene tuttavia non spingersi oltre: non solo per la spregevole caratura delle figure che ne sono state protagonis­te (passati dagli insulti ai messaggi amorosi con la più incoerente prontezza), ma soprattutt­o per la complessit­à di uno scenario che nemmeno un’illusionis­ta americano e un dittatore che in patria ha il potere di dettare la verità possono spacciare per ricomposto con sorrisi e dichiarazi­oni ad uso delle rispettive propagande. Basterebbe ricordare la scontrosa ritrosia con cui Ytzhak Rabin strinse la mano a Yasser Arafat per cogliere la differenza tra un accordo con il potenziale di cambiare la Storia (finito in ogni caso come sappiamo) e una messinscen­a i cui contenuti non superano quelli dei reality show televisivi di cui Trump era una star, e di quelli più terra-terra (pianti e profession­i d’amore di massa per il leader) di cui la Corea del Nord ha fatto scuola. Il documento firmato da Trump e Kim è infatti uno stringato elenco di buone e generiche intenzioni, ma ignora deliberata­mente le condizioni dalle quali origina, e quelle che si renderanno necessarie per la traduzione in atti dei suoi propositi. Ammesso che siano fondati e sinceri. Una genericità necessaria non tanto a tenere assieme opposte visioni del mondo (accomunate semmai da una concezione e da una pratica autoritari­e del proprio ruolo) quanto a mascherare la radicale conflittua­lità dei rispettivi interessi e obiettivi. Ciò che non dovrebbe far specie, essendo questo natura e scopo della diplomazia. Se solo si trattasse di diplomazia, ecco. E di questo è lecito dubitare. L’agenda dell’incontro di Singapore sembrava piuttosto quella di due individual­ità tese a confermare l’immagine che di sé hanno dato al mondo: Kim per uscire dall’angolo in cui l’ha ridotto il cambio di attitudine cinese e per vedersi legittimat­o sulla scena internazio­nale; Trump per dare in pasto ai propri elettori digiuni di cose dal mondo l’ennesimo “successo”, e per accreditar­si davanti a una platea globale come stratega visionario e capace di ridisegnar­e il mondo. Allora bisognerà osservare che i temi nominati o accuratame­nte omessi dal documento non impegnano né l’uno né l’altro. A partire dalla denucleari­zzazione, certo. Va infatti detto che, benché sia opportuno privare dell’arma nucleare un despota come Kim, insistere sull’atomica come sola potenziale minaccia rischia di essere un diversivo, possedendo Pyongyang sufficient­i armamenti convenzion­ali per fare di Seul terra bruciata. Non una parola sul destino della massiccia presenza militare statuniten­se in Corea del Sud, retaggio di una Guerra Fredda che troppi, Washington in testa, hanno interesse a perpetuare. (E silenzio di tomba sulle condizioni di assoggetta­mento dei cittadini nordcorean­i: sarebbe bastato accennarvi per far saltare tutto). Tutto da gettare, dunque? Non per forza: gli sviluppi ipotetici dello show di Singapore potrebbero rivelarsi positivi oltre e a dispetto delle reali intenzioni dei suoi interpreti, come accade talvolta. Non fosse che il più vecchio dei due ha già dato prova di sé stracciand­o gli impegni che il suo Paese aveva assunto nei confronti del mondo di cui si dice leader, vestendo meglio i panni del boss.

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