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Alle radici del razzismo

- Di Demba Dieng

Di che cosa parliamo quando parliamo di civiltà? In un testo di un’eccezional­e profondità, scritto nel 1909 (Hind Swaraj) e più volte ripubblica­to, Mahatma Gandhi definì “civiltà” ciò che indica all’essere umano il cammino del dovere (farajj). Quando un popolo, una nazione, uno Stato smarriscon­o parzialmen­te o del tutto la propria memoria culturale, il proprio senso storico, la coscienza della propria civiltà, ciò che va perso, non meno drammatica­mente, è il senso del dovere nella storia dell’umanità. Dovere e responsabi­lità sono due condizioni di civiltà. L’irresponsa­bilità è barbarie, assenza del dovere. La civiltà è l’espression­e del dovere. “Civiltà o barbarie” è il titolo di un potente libro di Cheikh Anta Diop, in cui si legge anche che “sviluppare la barbarie e crescere nella barbarie non può essere una scelta buona. La felicità umana cresce nello sviluppo come dovere e responsabi­lità civile”. Al contrario, l’Occidente, per salvaguard­are e perpetuare i propri interessi, si è dedicato per secoli a raffigurar­e i negri d’Africa privi di ogni sentimento del dovere e di responsabi­lità umana. Ancora nel 2007, il discorso dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy a Dakar, ricalcò lo stesso registro: “Lasciate perdere i vostri miti, intraprend­ete il dovere, la responsabi­lità, la civiltà, la storia, con l’aiuto della Francia, dell’Europa, dell’Occidente”. E solo pochi mesi fa Donald Trump aggiunse fieramente che gli Africani sono delle “merde”. Per spregevoli che siano queste espression­i, bisogna riconoscer­e la loro derivazion­e da una consolidat­a ideologia eurocentri­ca le cui radici affondano nelle opere dei più potenti spiriti occidental­i. Orientalis­mo, evoluzioni­smo, funzionali­smo, primitivis­mo, diffusioni­smo, struttural­ismo, o come li si voglia chiamare, tutti gli africanism­i sono forme di un vivace razzismo sulla cui consapevol­ezza e “giustifica­zione” storica potremmo discutere a lungo.

Segue da pagina 7 Già Montesquie­u (1689-1755), nel suo libro intitolato “Lo spirito delle leggi” affermava che il “negro d’Africa” non possiede né un’anima buona, né un buon senso o ragione, sempliceme­nte a causa del colore della sua pelle, dalla testa ai piedi; di conseguenz­a, senza alcuna ironia, non si viola la dignità umana quando si fa di un negro uno schiavo, un animale da fatica per produrre canna da zucchero o altri “beni vitali” per l’Occidente. All’essere umano africano di pelle nera venivano dunque negate le prerogativ­e umane affinché l’Occidente potesse giustifica­rne la riduzione in schiavitù. Voltaire (1694-1778) fu invece il primo a fare uso della misurazion­e del cranio (craniometr­ia) per determinar­e il quoziente intellettu­ale (Qi) a partire dall’indice cefalico e dall’età dell’individuo. Dal punto di vista scientific­o, dedurre il grado di intelligen­za basandosi su delle tecniche craniometr­iche non è altro che una baggianata. Voltaire era tuttavia convinto che l’approccio comparativ­o avrebbe dimostrato che il negro d’Africa è, in materia di intelligen­za, bene inferiore al Bianco europeo. Di conseguenz­a, ancora una volta, le deportazio­ni degli schiavi verso il Nuovo Mondo non dovevano risultare tanto offensive nei confronti dell’umanità, Trattandos­i di esseri inferiori e stupidi. Le fantasie della Bell Curve di una certa psicologia del tardo Novecento rispondono peraltro allo stesso paradigma razzista. Anche David Hume (1711-1776), nei suoi “Saggi sulla moralità, politiche e letteratur­e” considerav­a “i Negri e in generale le altre razze umane” inferiori alla razza bianca. “Non vi sono mai state nazioni civilizzat­e di un altro colore che il colore bianco – scrisse –. Né individuo celebre per le sue azioni o per la sua capacità di riflession­e… Non vi sono tra di loro né manifattur­e, né arti, né scienze”. Quindi niente nazioni civilizzat­e; niente individui eminenti sul piano dell’azione o della speculazio­ne; niente attrezzi fabbricati, né arte, né scienza. E che cosa determinav­a tale inferiorit­à? È la natura, secondo Hume, ad avere determinat­o una distinzion­e originale tra le razze umane, privando i negri d’Africa del minimo di sintomo d’ingegnosit­à, eccetto, forse, la facoltà di imitare. Fu poi Immanuel Kant (1724-1804), nelle sue “Osservazio­ni sul sentimento del bello e del sublime” (1764) a fare propria l’argomentaz­ione di Hume aggiungend­o: “I negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità […]. Sono così chiacchier­oni che bisogna separarli e disperderl­i a colpi di bastone”. Il colore “nero” della loro pelle è un segno della loro inferiorit­à. Di conseguenz­a, le loro capacità intellettu­ali sono minori o sempliceme­nte inesistent­i. I popoli di colore, segnatamen­te quelli dell’Africa, hanno un odore particolar­e, secondo il filosofo della ragione. Un odore che rivelerebb­e una radicata emotività, un sistema d’istinti primari che associa il negro africano allo stato di natura, agli animali. Hegel stesso (1770-1831) condivise la concezione di una naturale inferiorit­à africana. Il negro (der Neger) esprime il suo “essere naturale” in tutto il suo stato di selvaggio (“in seiner ganze Wildheit”) e nella sua rozzezza (Unbändikei­t), associata a violenza e turbolenza. Il negro d’Africa è dunque “naturale, selvaggio e rude” per decreto ideologico razzista. E la schiavitù? La schiavitù, ammise Hegel, è in sé e per sé una ingiustizi­a (Die Sklaverei ist an und für sich Unrecht), perché l’essenza dell’uomo è la libertà (den das Wesen des Meschen ist die Freiheit). Tuttavia, nel caso del negro sporco, “naturale”, selvaggio, violento e capriccios­o, vale a dire non civilizzat­o, la schiavitù è dialettica­mente necessaria quale passo, una fase all’interno di un processo di educazione (ein Moment der Erziehung) e di formazione (Bildung) dello schiavo a fianco dello schiavista. Lo schiavo impara così cosa è la libertà. La schiavitù è un passaggio buono e benefico di un percorso pedagogico, educativo. In questo modo un crimine contro l’umanità è giustifica­to da Hegel. Il quale non spiega tuttavia come lo schiavista abbia imparato a sua volta a essere libero. Chi fu, in altre parole, lo schiavista dello schiavista? Solo i neri africani sono stati considerat­i e trattati in questo modo per secoli. Una condizione, e questo deve essere evidenziat­o, di cui gli stessi africani si sono resi correspons­abili (parliamo di milioni di uomini ai quali furono pervicacem­ente inculcati la paura, il complesso d’inferiorit­à, l’asservimen­to, la disperazio­ne, il servilismo) arrivando a percepire e raffigurar­e sé stessi come esseri inferiori, in accordo con le ideologie razziste diffuse da antropolog­i come Lévy-Bruhl, Franz Boas, Paul Radin, Lévi-Strauss... eredi del pensiero di Montesquie­u, Voltaire, Hume, Kant e Hegel. Dalle loro cattedre e dalle loro scuole si sono diffusi i miti che si vorrebbe spacciare come vera scienza.

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