Giorni bui in Nicaragua
Oltre 180 i morti nelle manifestazioni iniziate a metà aprile. Non parte il ‘dialogo nazionale’ Le proteste, originate dal piano di tagli alle pensioni, sono ormai rivolte contro il presidente Ortega, lasciato anche dall’episcopato
Si è disfato dei vecchi compagni, ora il Nicaragua, una sua parte importante, vuole disfarsi di lui. E di sicuro, finché il presidente Daniel Ortega non accetterà di rimettere alla volontà dei nicaraguensi le proprie sorti politiche, la spaccatura nella società non potrà che aggravarsi, insieme al bilancio di morti nelle proteste. Tregue annunciate e subito violate, un dialogo nazionale “concesso” e presto smentito: da aprile il Paese della rivoluzione sandinista è percorso da una tensione viepiù insostenibile. Nata in reazione a una riforma previdenziale che associava tagli alle pensioni e aumento dei contributi obbligatori all’istituto della previdenza sociale, la protesta è cresciuta sino a diventare una rivolta contro il potere stesso. Secondo modalità che ricorrono in molte situazioni analoghe, o secondo un copione prestabilito, come denunciano la stampa vicina a Ortega e le organizzazioni affiliate al regime. Concentrata dapprima nella capitale Managua, con protagonisti gli studenti del politecnico, la protesta sembra avere spostato il proprio focolaio principale a Masaya: non un centro qualunque, ma la città simbolo della ribellione sandinista contro la dittatura di Anastasio Somoza. Proprio contro Masaya si è concentrata negli ultimi giorni la repressione governativa. Militari, gruppi paramilitari e organizzazioni giovanili sandiniste hanno attaccato la città con una violenza inusitata. In reazione alle aggressioni dei rivoltosi, secondo le autorità che a loro volta accusano la protesta di essersi organizzata militarmente. Dalla metà di aprile, i morti si contano in oltre 180 (non tutti rivoltosi, tuttavia) e ogni giorno il loro numero va aggiornato. Comunque la si pensi (rivolta spontanea o macchinazione imperialista: a nessun’area del mondo come al Centro-sud America si applicano, nei commenti degli osservatori militanti, queste due categorie) si parla di un Paese nel quale un vecchio capo della rivoluzione che abbatté Somoza nel 1979, si è a sua volta insediato al potere senza alcuna intenzione di lasciarlo. Anzi, aggiungendovi un tratto grottesco: la vicepresidente altri non è che la moglie di Ortega, Rosario Murillo. Una parabola surreale che ha per protagonista un popolarissimo presidente dal 1984 al 1990; poi sconfitto in successive elezioni presidenziali – delle quali rispettò sempre l’esito – e infine rieletto nel 2006, nel 2011 e nel 2016. E per sempre, si potrebbe dire, essendo Ortega riuscito a riscrivere la Costituzione sulla propria convenienza. Lo stesso ritorno di Ortega al potere è stato una sorta di rottura con la tradizio- ne di cui si voleva interprete: rieletto in buona parte grazie ai voti portatigli dalla gerarchia cattolica, si è sdebitato concedendo alla Chiesa una delle leggi sull’aborto più restrittive al mondo; mentre la sua politica economica, e dunque sociale, ha accolto le direttive del Fondo monetario internazionale, del quale si è dimostrato disciplinato esecutore. Assicurando al Nicaragua un invidiabile periodo di crescita economica, il cui contrappasso sono stati il peggioramento delle disparità sociali (solo in parte compensate da una politica di fidelizzazione attraverso clientele e provvedimenti di facile efficacia propagandistica) e la rottura dei rapporti con molti storici compagni di lotta. Tutto inutile, o quasi, se la stagnazione successiva è poi divenuta recessione, al punto da imporre i tagli alla previdenza, e se metà del Paese gli si è rivoltato contro. La protesta, male organizzata e dispersa non ha spuntato una sola delle proprie rivendicazioni; in compenso ha dalla propria parte una Chiesa che per opportunismo o per convinzione si è messa di mezzo. Appoggiando e poi respingendo l’offerta di dialogo nazionale avanzata da Ortega. Ancora tre giorni fa, la Conferenza episcopale del Nicaragua lo ha definito “disumano” per aver ordinato la repressione dei civili. “Non potrà continuare. Non può uccidere e isolare un intero popolo. Sono consapevole che questo è un dialogo morto, poiché l’interlocutore è inumano”, ha detto Abelardo Mata Guevara, portavoce dei vescovi.