laRegione

L’ultima spiaggia dell’Europa

- Di Erminio Ferrari

Lo spettro che si aggira oggi per l’Europa è un migrante. Porta in sé il terrore di una guerra, il fiato greve della miseria, l’incoscienz­a di un viaggio affrontato senza un dove né il come. Arriva e il suo stesso arrivo destabiliz­za la terra di approdo, un’Europa le cui contraddiz­ioni deflagrano non appena la miccia accesa in Africa le si avvicina. E l’Europa rischia di venirne distrutta. Ciò che a qualcuno, a molti ormai, non dispiacerà. Ma è tragico, quasi un contrappas­so epocale, che l’Europa, rimessasi in piedi dopo 40 anni di una delle guerre civili continenta­li più devastanti della Storia, finisca per smembrarsi in autismi rabbiosi, contempora­neamente, o a causa della consunzion­e di un processo che si era creduto virtuoso, i cui ultimi passaggi “nobilitant­i” erano stati la decolonizz­azione (più subita che voluta) e la democratiz­zazione dei Paesi dell’ex Est. Ora sembra che proprio il retaggio dell’una e dell’altra vicenda storica si manifesti nelle forme meno attese e meno edificanti. È cioè dura, per un continente avvezzo in altri tempi a occupare terre altrui, saccheggia­rne le risorse e assoggetta­rne le popolazion­i, vedere le avanguardi­e lacere di quel continente venire a reclamare una parte pur minima di quel benessere. E allo stesso modo sconcerta constatare che nei Paesi “liberati dal giogo comunista” la concezione autoritari­a del potere ha soltanto cambiato denominazi­one, facendo semmai emergere la natura più truce del nazionalis­mo. Dunque ha un bel dire Emmanuel Macron che i “populismi crescono in Europa come la lebbra” (ed è vero); ma non è di questo soltanto che si tratta. Il rifiuto che Salvini oppone ai migranti nei modi belluini che gli sono propri, è speculare alla pervicacia con cui le capitali “rispettabi­li” insistono nel voler rinviare all’Italia, secondo la lettera del Trattato di Dublino, i migranti illegali dispersi per l’Europa. E si osservi che per quanto riguarda le pratiche governativ­e, l’alternativ­a a Salvini sono sinora stati l’accordo che Minniti, precedente ministro dell’Interno, aveva siglato con le bande libiche che gestiscono i campi di concentram­ento per migranti insediati sulle coste meridional­i del Mediterran­eo; e quello fortemente voluto da Angela Merkel con l’autocrate Erdogan, per fermare la cosiddetta “rotta balcanica” (che investiva innanzitut­to la Grecia: reproba quanto a conti pubblici, a lungo lasciata sola a fare da baluardo ai primi della classe). Merkel a cui va peraltro riconosciu­to un gesto di sana follia quando annunciò che la Germania poteva accogliere fino a un milione di rifugiati siriani all’anno, e per il quale sta ancora pagando un prezzo politico elevatissi­mo. Nessuno può onestament­e dire di sapere come affrontare (non diciamo risolvere) una questione tanto vasta e di portata epocale come le migrazioni. Non un umanitaris­mo pur sacrosanto e moralmente svettante sulle parole bieche di certi politici. Né i governi che sanno di fascismo da lontano; non quelli nostalgici di una grandeur smontata a Bardonecch­ia e Ventimigli­a; e nemmeno il finto mediatore cancellier­e a Vienna che flirta con le peggiori destre per dare il tono al semestre di presidenze Ue che sta per assumere. Le schermagli­e, i toni astiosi che ancora domenica si ascolteran­no nell’incontro tra i governi europei saranno una tacita ammissione di questa impotenza. Tanto più premiata dai consensi quanto più la si spaccia per forza e determinaz­ione. All’Italia si concederà qualcosa, ma Salvini chiederà di più. A Berlino e Parigi il presidente del Consiglio Conte prometterà capacità e lealtà, sapendo di non essere attendibil­e per i suoi interlocut­ori. Miserie.

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