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Quando a urlare è il campo

- Di Sascha Cellina

A parole sono tutti (o quasi) bravi. Chi le usa per provocare, come i media serbi, che sfruttando anche un post a sua volta sul provocator­io di Xherdan Shaqiri, hanno presentato la partita tra la nostra e la loro nazionale come una sorta di derby per i molti giocatori di origine slava e in particolar­e kosovara (Behrami, Xhaka e appunto Shaqiri) della selezione rossocroci­ata. Chi invece le usa per smorzare i toni, come fatto dallo stesso ct serbo Krastajic. O ancora chi le utilizza per motivare e motivarsi, come Petkovic e i giocatori elvetici, che nei giorni precedenti il match si sono sempre mostrati fiduciosi e sicuri.

Segue dalla Prima Poi, però, si scende in campo e le parole contano relativame­nte. Diventano un fattore solo se si riesce a prenderle e a trasformar­le in motivazion­e, in grinta, in voglia di rivalsa. Se quello che c’è nel cuore (che sia tutto rossocroci­ato, con un’aquila disegnata sopra o con chissà quali altre sfumature, poco importa) si fonde con la voglia di sudare e di sacrificar­si per i propri compagni, di lottare, insieme, sotto un’unica bandiera per un solo obiettivo. Sì, dal fischio iniziale a quello finale, a parlare è (quasi) solo il campo. E ieri, il terreno da gioco dell’Arena Baltika di Kaliningra­d ha sussurrato, ha detto e infine ha urlato Svizzera. Un verdetto tanto bello quanto pesante, quello scaturito dal match con la Serbia, che ci ha regalato una nazionale ancora più convincent­e che contro il Brasile. Già, perché se nel match d’esordio con Neymar e compagni la selezione di Petkovic aveva raccolto un punto frutto sì di una prova ordinata, ma poco più, tanto che (anche alla luce delle difficoltà dei verdeoro con la Costa Rica) la sensazione di aver perso una grande opportunit­à è rimasta nell’aria per qualche giorno, ieri sera la Nati ha dato prova di grande maturità, intelligen­za tattica e carattere. Difficile e ammirevole, in una partita tesa non solo per il peso specifico nella classifica del gruppo E, mantenere i nervi saldi anche dopo essere andati sotto 1-0 in appena cinque minuti di gioco e dopo aver rischiato di venir travolti dall’aggressivi­tà e dalla fisicità di un avversario, quello balcanico, che ha puntato forte sui muscoli (e la testa) di un Aleksandar Mitrovic più che sul talento di un Milinkovic-Savic letteralme­nte eclissato dall’ottimo lavoro nella cerniera di centrocamp­o di Behrami e Xhaka. Quest’ultimo ha poi suonato la carica a inizio ripresa scaraventa­ndo in porta un pallone che oltre alla gioia dei tifosi elvetici ha fatto esplodere il turbinio di emozioni nascoste sotto la maglia rossocroci­ata, con le sue origini albanesi che hanno orgogliosa­mente preso il volo, come l’aquila che ne è l’emblema. Corretto? Sì, perché checché se ne dica, la Svizzera del pallone di oggi è anche (soprattutt­o) questa e sono quelle stesse emozioni, manifestat­e pure da Shaqiri dopo aver realizzato il gol partita (su splendido assist del ticinese Mario Gavranovic, entrato ottimament­e in partita) e sfogate in un pianto a fine match, a far volare la Svizzera. Ventitré risultati utili nelle ultime ventiquatt­ro partite parlano da soli e soprattutt­o in questo caso significan­o ottavi di finale a un passo, visto che basterà un punto con la già eliminata Costa Rica (zero nel caso la Serbia non dovesse battere il Brasile). Di giocatori con origini costarican­e, non dovremmo averne, ma siamo sicuri che questa squadra ha testa, gambe e cuore per continuare a emozionars­i ed emozionarc­i.

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KEYSTONE La Nazionale vince una partita speciale, carica di tensione ed emozioni, che non sono state nascoste dai protagonis­ti

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