laRegione

La lingua di gomma

- Di Lorenzo Erroi

“Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogat­o, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettand­o, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: ‘Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglier­ia di sopra era stata scassinata’. “Impassibil­e, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizio­ne: ‘Il sottoscrit­to, essendosi recato nelle prime ore antimeridi­ane (...)

Segue dalla Prima (...) nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualment­e incorso nel rinvenimen­to di un quantitati­vo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostant­e al recipiente adibito al contenimen­to del combustibi­le, e di aver effettuato l’asportazio­ne di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridian­o, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastant­e. Scrittore dalla prosa tersa come un brillante, Italo Calvino scimmiotta­va così l’“antilingua inesistent­e” di “avvocati e funzionari, gabinetti ministeria­li e consigli d’amministra­zione, redazioni di giornali e telegiorna­li”. Sottolinea­ndo come questa lingua manifesti una specie di “terrore semantico”, la paura d’usare termini così semplici da avere ancora un significat­o. Mi torna in mente sfogliando alcuni documenti per un articolo. A farmi incespicar­e, frasi del genere: “Questa prospettiv­a richiede una revisione dell’approccio didattico, orientata sia a sviluppare e consolidar­e i saperi richiesti dall’esercizio di un agire competente sia ad attivare e a offrire processi associati alla mobilitazi­one di tali saperi”. Mi stropiccio gli occhi, sarò stanco io. Procedo poco oltre: “Attività di formazione continua indirizzat­e alla gestione relazional­e e comunicati­va permettono al docente di conoscere i principi di base della ‘pragmatica della comunicazi­one’”. Mah, vabbè, sarà qualcuno che vuole far vedere che ha fatto il Classico. Cambio documento, cerco i requisiti richiesti per un progetto: “Completezz­a e chiarezza dei riferiment­i contestual­i rapportati al contesto istituzion­ale e d’aula”. Potrei andare avanti a oltranza, ma sono già ubriaco. Ora: non è che io voglia prendermel­a specificam­ente con gli autori di queste frasi. È ovvio che ‘supercazzo­le’ del genere arrivano giornalmen­te da qualsiasi dipartimen­to pubblico e ufficio privato (“nell’attesa di un vostro gradito riscontro in merito alla tematica di cui all’oggetto…”). Ma perché tutto ciò? L’impression­e è che il “terrore semantico” sia il risultato di un preciso meccanismo di autodifesa del potere (stavo per aggiungere ‘orwelliano’, ma ho visto Calvino che scuoteva la testa). A usare parole chiare, precise, rotonde, si finisce per essere comprensib­ili. E quando si è comprensib­ili, si è anche criticabil­i: non la semplice critica del “sa capiss nagott”, di per sé innocua, ma la critica puntuale di quanto si sta dicendo. Meglio dunque usare i fumogeni per nascondere la propria nudità. Una reazione tanto più comprensib­ile nelle organizzaz­ioni complesse, dove tutti, dai superiori al ‘pubblico’, sembrano accerchiar­ci come un plotone d’esecuzione. Così la lingua di gomma, quella che puoi sempre cancellare e riscrivere a tuo piacimento, diventa un gergo da scriba. Tenendo la realtà fuori dalla porta, si tengono lontani anche i nemici. Non voglio certo fare polemiche anti-casta, ché non vorrei fare il gioco di certi demagoghi. Ma se la “casta” vuole continuare a essere tale, prima o poi dovrà pur farsi capire. E magari anche capirsi. Altrimenti la pressione dello scontento si farà insopporta­bile. Per essere chiaro, specifico che in questa “casta” includo anche i giornalist­i. Me per primo, dato che certi processi d’imitazione sono difficili da scardinare. Siamo quelli che “le ipotesi di reato sono al vaglio degli inquirenti” (quanti sanno ancora cos’è un vaglio?), “la squadra partenopea”, “la colonnina di mercurio”. Trascrivia­mo le interviste come una “zia ottantacin­quenne, ex maestra elementare”, come dicevano Fruttero & Lucentini: “Non v’è dubbio che le preferenze delle massaie si orientano verso i pomidoro scozzesi’, svela un rude scaricator­e dei mercati generali. ‘Siffatti provvedime­nti non giovano un bel nulla!’, esclama un oste trasteveri­no”. E ci mettiamo anche il carico, pur di emozionare il lettore: “La scia di sangue”, la vicenda che “si tinge di giallo”, gli “strateghi del terrore”, il “paesello ammutolito dal dolore (commoventi le parole del parroco)”. Forse è anche una questione storica, di fine impero. Relegate alla periferia di un mondo che un tempo aveva l’Europa al centro, le parole “si sfarinano in bocca come funghi marci”, come succedeva a Hugo von Hofmannsth­al sul finire dell’impero asburgico. E magari si è costretti a ricalcare malamente modi e stili che vengono dalle nuove capitali; si pensi a quegli scrittori italiani che fanno parlare i loro personaggi quasi fossero doppiatori delle serie tv (“Ma che stai dicendo? Dannazione! Apri questa fottuta porta!”: pesco da un bell’articolo di Violetta Bellocchio su ‘Nuovi Argomenti’). Invece di riprendere, magari, quella spiazzante semplicità che contraddis­tingue proprio i grandi autori e giornali anglosasso­ni. Vabbè, ora la smetto. Ribadisco: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Io grandi soluzioni non ne ho, lezioncine da dare neanche, e sono ben consapevol­e di essere parte del problema. Però se almeno ci riflettess­imo un po’ più spesso, un po’ tutti, sarebbe meglio. “Bisogna fare attenzione a non sporcare in giro con le nostre parole”, insegna Göran Tunström. Me lo ricorda spesso un mio collega. Uno che quando gli dici “hai una bella penna” ti risponde: “In effetti son stato negli Alpini”.

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