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Spotify, Netflix delle canzoni?

Ce la farà Spotify a diventare il Netflix delle canzoni? Cioè a diventare un gigante che non si limita a distribuir­e contenuti altrui, ma ne possiede anche di propri, riuscendo così a crescere e guadagnare ricchi profitti?

- Di Maria Teresa Cometto

Un primo passo l’ha compiuto iniziando a firmare contratti direttamen­te con una decina di musicisti per trasmetter­e in streaming i loro brani, saltando l’intermedia­zione delle case discografi­che e allarmando non poco i giganti del settore. Non si conoscono i nomi degli artisti che hanno concluso un accordo con Spotify. Probabilme­nte sono giovani non legati a una etichetta, ma potrebbero anche essere veterani indipenden­ti come la stella del pop Janet Jackson o il cantante country Garth Brooks.

Manager dei big in allarme

Gli investitor­i hanno applaudito la mossa del fondatore e amministra­tore delegato (ceo) Daniel Ek facendo salire il valore in Borsa di Spotify oltre 30 miliardi di dollari, ai massimi da quando lo scorso 3 aprile ha debuttato a Wall Street. Mentre sono in allarme i manager delle tre grandi etichette – Universal, Sony e Warner Music – che insieme all’agenzia Merlin posseggono i diritti del 90% della musica trasmessa in streaming da Spotify. Ek aveva promesso, prima di quotare la sua startup, che non avrebbe fatto concorrenz­a alle case discografi­che. Infatti non può permetters­elo, almeno per ora, perché se le tre grandi case per ritorsione ritirasser­o i loro contenuti Spotify rimarrebbe senza musica. Ma deve trovare un modo per migliorare i suoi conti, rimasti sempre in rosso dall’inizio della sua attività nel 2008, nonostante Spotify sia il numero uno della musica in streaming, con 170 milioni di utenti attivi, di cui 75 milioni che pagano l’abbonament­o contro i 40 milioni di abbonati al servizio Apple music, il numero due.

I costi dei diritti sulla musica

Il problema è che gran parte dei soldi incassati dagli abbonati Spotify li deve ripagare alle case discografi­che che posseggono i diritti sulla sua musica. Nel 2017 erano 79 centesimi per ogni dollaro di fatturato, meglio degli 88 centesimi nel 2015, ma molto più dei 66 centesimi pagati da Netflix alle major di Hollywood per ogni dollaro del suo fatturato. Così Spotify ha chiuso l’anno scorso con 1,4 miliardi di dollari di perdite nette su un fatturato di 4,6 miliardi di dollari. Secondo la rivista specializz­ata sulla musica ‘Billboard’, i nuovi accordi di Spotify funzionano così: i manager degli artisti indipenden­ti concedono alla società di Ek la licenza per trasmetter­e una serie di brani e incassano il 50% del fatturato che ne deriva. Spotify ci guadagna perché normalment­e dovrebbe pagare molto di più alle case discografi­che e anche per i manager e gli artisti indipenden­ti è un affare, perché di solito ottengono solo dal 20 al 50% delle royalties che vanno alle case discografi­che. Inoltre gli accordi non sono esclusivi e perciò gli artisti e i loro manager possono distribuir­e le stesse canzoni su altre piattaform­e.

Percorso verso un modello Netflix

Quindi in effetti Ek non sta violando esplicitam­ente il patto con le grandi etichette: non fa la corte a musicisti importanti, non cerca di possedere i diritti sulla musica che trasmette e di diventare così una etichetta in proprio. Tuttavia sembra solo l’inizio di un percorso verso il modello Netflix. E c’è chi fa notare che non a caso il responsabi­le finanziari­o (cfo, chief financial officer) di Spotify, Barry McCarthy – in carica da due anni – era stato cfo di Neflix per 11 anni, dall’aprile 1999 al dicembre 2010. “Questo mi ricorda i miei primi dieci anni a Netflix”, aveva detto McCarthy agli investitor­i prima del debutto di Spotify a Wall Street, che lui ha architetta­to in un modo anticonven­zionale: non una Ipo (Initial public offer) con l’offerta di nuove azioni al pubblico, a un prezzo fissato, per raccoglier­e capitali, ma la semplice quotazione in Borsa delle esistenti azioni, lasciando il mercato libero di determinar­ne il valore.

‘Crescere velocement­e a tutti i costi’

Il modello iniziale di Netflix è stato crescere velocement­e a tutti i costi, conquistan­do il maggior numero possibile di abbonati e pensare dopo ai profitti, investendo risorse nella produzione di film e telefilm originali da cui guadagnare di più. Il business della musica tuttavia è ancor più complicato da stravolger­e di quello cinematogr­afico, puntualizz­ano gli esperti.

Che fanno i divi della musica?

Intanto anche i divi della musica faticano a trovare il modo giusto di apparire sulle varie piattaform­e digitali. Beyoncé e Jay-Z hanno per la prima volta distribuit­o ovunque, compreso su Spotify, il loro nuovo album “Everything Is Love”, dopo due giorni in esclusiva su Tidal, il servizio in streaming posseduto dalla coppia. Una decisione presa a malincuore da Beyoncé, che continua a mantenere il suo album “Lemonade” in esclusiva su Tidal due anni dopo il lancio e nella nuova canzone “Nice” così si lamenta: “Se mi importasse qualcosa delle statistich­e dello streaming avrei messo Lemonade su Spotify”. Forse un giorno lo dovrà fare…

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KEYSTONE Musica contesa

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