Guerra commerciale, quali rischi per le Borse?
Se si vuol prestar fede al responso dei mercati, dovremmo concludere che la Cina sta già perdendo la guerra commerciale dichiarata da Donald Trump. Dal massimo di gennaio, la borsa di Shanghai ha perso il 22%, con un’accelerazione dopo il 22 maggio, quando i venti di guerra si son fatti più intensi. Di contro, Wall Street ha ceduto il 5,5% da gennaio, ma, quel che più conta, è che i dazi doganali imposti o annunciati hanno prodotto solo una limatura dello 0,3% all’indice S&P. Parrebbe ovvio concludere che è la Cina in una posizione di debolezza, dal momento che la sua bilancia commerciale ha un saldo attivo per 370 miliardi verso gli Stati Uniti. E, sempre osservando i mercati, si dovrebbe trarre la conclusione che l’Europa è il secondo posto più pericoloso ove investire, poiché l’indice Stoxx, dal 22 maggio, ha perso oltre il 5%. Il totale delle esportazioni, osservano gli analisti, produce nell’area euro il 27% del Pil, più ancora che in Cina (21%), contro appena il 12% per gli Stati Uniti. I soli dazi doganali sulle auto (pari al 25%, come minaccia Washington), ridurrebbero dello 0,3% il pil d’Eurozona, stima Bank of America (BofA), senza contare altre ripercussioni, prime fra tutte quelle psicologiche. Per le nostre borse sarebbero guai ancora peggiori, poiché un quarto dei ricavi complessivi realizzati dalle società dell’indice Stoxx arrivano proprio da Cina e Usa (dati Factset). In questa incipiente guerra commerciale, anche l’Europa sarebbe dunque perdente. Ma, è proprio vero che sarebbe vincente l’America, quantomeno in termini relativi, come suggerirebbero i mercati? Sembra sia così, per lo meno nel breve periodo: come difatti sta avvenendo. L’inquietudine di una guerra commerciale, unita ai ripetuti timori sulla sostenibilità del debito cinese (riaccesi dall’ultima analisi di Nomura), alla crescita rallentata in Europa e alle nuove tensioni politiche nell’area euro hanno spinto gli investitori ad alleggerire le posizioni sulle borse internazionali a tutto vantaggio di Wall Street. Nell’ultimo mese, secondo i dati di BofA, sulle azioni americane si sono riversati flussi di denaro per oltre 5 miliardi, esattamente quanti ne sono usciti dai Paesi emergenti; dalle Borse europee sono stati disinvestiti altri 2,7 miliardi (e fanno quasi 39 miliardi nelle ultime 15 settimane). È un copione che si ripete ogni volta che c’è sentore di qualche difficoltà in giro per il mondo: il denaro cerca un presunto rifugio nei relativamente più tranquilli porti americani, come dimostra il rialzo del dollaro sulle principali valute (+2,3% in 3 settimane) e la forza dei Treasury, con i rendimenti scesi di conseguenza dal 3,1% di metà maggio all’attuale 2,84%. Tuttavia, se persiste il rischio di una vera guerra commerciale, ci sono ragionevoli dubbi che Wall Street possa essere considerata un’oasi felice nel medio periodo, anche in termini relativi. Ci soccorre ancora un’analisi di Bank of America in cui si dimostra come la globalizzazione abbia fatto crescere negli ultimi 20 anni del 40% i margini operativi delle aziende americane incluse nell’indice S&P500. Se Barclays aveva stimato un calo degli utili dell’11% circa, nel caso si applicassero tariffe doganali del 10% su beni e servizi importati ed esportati, BofA calcola che il solo aumento del 10% nel costo delle importazioni equivarrebbe a utili in calo del 3-4% per le società americane. Da una guerra commerciale, però, perderebbero tutti. Una simulazione del Fondo monetario ci fa capire che, se Usa, Cina ed Europa vedessero crescere del 10% i prezzi dei beni importati, il Pil delle tre aree calerebbe di 2-3 punti percentuali, senza contare l’impatto indiretto di altri fattori negativi. Infine, non è detto che l’Europa debba soffrire più degli Stati Uniti se riuscisse a limitare i danni con gli Stati Uniti e soprattutto se mantenesse un regime di libero scambio con Cina e Paesi emergenti. In quel caso, sostiene l’economista per l’area Asia e Pacifico di Natixis, il Vecchio continente potrebbe guadagnare una fetta del ruolo che oggi compete all’America. La decisione di Harley-Davidson di spostare parte della produzione nell’area euro e i segnali di affaticamento che stanno arrivando ora anche da Wall Street dovrebbero consigliare Trump a recedere dai propositi della sua privata guerra commerciale.