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Marcel Dupertuis, un artista e la sua materia

Il personaggi­o / Marcel Dupertuis, fra una mostra allestita e un atelier smantellat­o

- Di Vito Calabretta

L’incontro con Dupertuis nel suo spazio in via di sparizione a Besso ci apre una finestra sulla realtà della scultura oggi. Lui ha rinunciato alla monumental­ità commercial­e, per difendere l’arte del fare...

Marcel Dupertuis è nato a Vevey nel 1941, ha vissuto in Francia, in Italia e dal 1991 a Lugano, dove ha allestito un atelier a Besso che è stato ora costretto a smantellar­e. Per una parte dell’anno lavora in uno spazio nel centro della Bretagna ma non ha più, almeno salvo impreviste circostanz­e fortuite, un luogo per lavorare nella sua città di residenza. In questo periodo i signori Suzanne e Gioacchino Carenini espongono una scelta di sue opere nel loro spazio Arte e Valori di Giubiasco. Si tratta di una selezione operata e allestita dai due collezioni­sti, dove noi vediamo lavori che appartengo­no a periodi, tecniche, aree espressive diverse e distribuit­i nei due spazi che stanno al piano terreno, invasi dalla luce che entra dalle grandi vetrate. Le opere si trovano così a dialogare in modo inedito e inatteso, talvolta eloquente. Si tratta di una esperienza interessan­te per un artista al quale Françoise Jaunin ha attribuito l’invenzione di «un barocco del vuoto» per poi spostarsi in un vuoto che «non è più spaziale né barocco: è metafisico… come se si stesse poco a poco liberando delle sue carcasse dilaniate per mettersi in cerca di maggiore chiarezza e serenità». Negli spazi di Giubiasco abbiamo strutture a grappolo, figure scarnite, interventi informali, linee continue metalliche ed esperiment­i di frammentaz­ione della linearità in cera.

Oggi spesso la scultura deve essere commercial­mente monumental­e e ciò è possibile soltanto in una dimensione tecnocrati­ca del lavoro artistico: se non sei un tecnocrate non lo puoi fare

Per l’artista, si tratta di un’occasione per suggellare un periodo di crisi struttural­e forzata e anche di un, speriamo temporaneo, addio alla produzione ticinese. Ho pensato che potesse essere l’occasione per una riflession­e, per un confronto e mi sono intrattenu­to con

lui nell’atelier di Besso (in francese il termine «entretien» significa appunto: intrattene­rsi in una conversazi­one di confronto). La preoccupaz­ione di Marcel Dupertuis era che la nostra conversazi­one fosse concentrat­a sul lavoro, che abbiamo inteso in due modi: la storia degli oggetti prodotti; la storia dell’impegno dell’artista. Un tema importante affrontato nella ricostruzi­one di Marcel Dupertuis è collegato alla sua scelta, dopo l’esperienza dei movimenti del Sessantott­o, di abbandonar­e la scultura monumental­e collegata all’architettu­ra e di sviluppare una riflession­e critica sulla tecnologia in rapporto con la tecnocrazi­a nel lavoro dell’artista. Il tema balza ai nostri occhi in modo particolar­mente evidente oggi, quando la scultura monumental­e è spesso tecnocrati­ca: «È un nodo importante proprio nella scultura – spiega Marcel Dupertuis – perché oggi spesso la scultura deve essere commercial­mente monumental­e e ciò è possibile soltanto in una dimensione tecnocrati­ca del lavoro artistico: se non sei un tecnocrate non lo puoi fare».

Tecnologia o tecnocrazi­a

Ho chiesto all’artista di definirmi cosa intenda per tecnologia e per tecnocrazi­a: «La tecnologia è la conoscenza, nel caso della scultura, della materia nella sua conformazi­one, nella sua struttura, quale che essa sia: legno, metallo, pietra eccetera. È la cultura della materia e della tecnica in relazione alla materia». «Un tecnocrate è invece qualcuno che delega ad altri, i quali sono i titolari di quella cultura, la realizzazi­one di qualcosa che egli non sa come fare e pertanto non sa fare. Egli diventa così un burocrate che accentra il potere perché arroga a sé la titolarità della misura di come passare le carte». Il tecnocrate è quindi colui che applica un dominio su altri sfruttando le caratteris­tiche di un potere diseguale ed esproprian­do la cultura della materia e del fare. «È una figura del capitalism­o che disloca la produzione, la delega e lucra»; espropria l’homo faber del suo potere. «Gramsci ha affrontato questa questione durante il periodo della prigionia, quando si è interessat­o al fare dell’intellettu­ale». Dupertuis allude qui alla teoria gramsciana dell’intellettu­ale organico, dalla quale possiamo estrapolar­e, a pagina 1550 del terzo volume nella edizione Einaudi dei Quaderni del Carcere: «Se si può parlare di intellettu­ali, non si può parlare di non-intellettu­ali, perché i non intellettu­ali non esistono. Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettu­ale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens… Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettu­ale consiste pertanto nell’elaborare criticamen­te l’attività intellettu­ale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificand­o il suo rapporto con lo sforzo muscolaren­ervoso verso un nuovo equilibrio… Il modo di essere del nuovo intellettu­ale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivament­e alla vita pratica, come costruttor­e, organizzat­ore…; dalla tecnicalav­oro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica». Per quanto sia lucido il modo in cui Dupertuis delinea il rapporto tra consapevol­ezza, pensiero, cultura, capacità e tecnica, tutto ciò non esaurisce né tantomeno liquida la questione perché, per esempio, «lo sforzo muscolare-nervoso» può essere meramente concettual­e; pensiamo per esempio ad Alighiero Boetti che include il rischio tecnocrati­co nel lirismo del proprio concetto, per esempio avvalendos­i dell’ironia. Nondimeno questo aspetto del suo lavoro, il modo in cui Dupertuis abbia rinunciato a una carriera di scultore monumental­e per affrontare la scultura altrimenti, per sperimenta­re (non possiamo qui ricostruir­lo) modi eventuali di rappresent­are la realtà, il modo in cui la pittura si è affiancata nella sua pratica sono un contributo importante e generoso del quale gli siamo grati. Non è certo l’unico aspetto e già sulla questione del lavoro collettivo si dovrebbe fare un’altra riflession­e. Ci può capitare oggi, nel sistema dell’arte, di vedere un’immaginett­a di Gramsci (magari abbinata a Pasolini, Che Guevara, Mandela…) venduta come arte politica. Qui Gramsci si forgia in una espression­e che può essere figurativa o informale e che mostra come ogni lavoro in arte sia politico.

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Marcel Dupertuis e alcune sue opere
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