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Sperare di più è chiedere troppo

- Di Marzio Mellini

Nel giorno della delusione per quello che avrebbe potuto essere – un Mondiale da tramandare ai posteri con i quarti di finale, una volta di più solo anelati –, riaffiora il ricordo del precedente ottavo di finale costato l’uscita di scena della Svizzera da un Mondiale. Che contrasto netto, quanto alle emozioni messe in gioco, con quel mirabolant­e duello del 2014 con l’Argentina (poi finalista), toccante congedo da Ottmar Hitzfeld, colpito negli affetti più profondi dalla morte del fratello poche ore prima della partita, tecnico al quale la squadra dedicò una prestazion­e memorabile, per come si svolse, e anche per come finì, al netto dei rimpianti per il celebre palo di Dzemaili. Che partita, quella. E riuscì a una Nazionale che si voleva ancora in crescita, non ancora pronta per l’agognato salto di qualità.

In Francia, contro la Polonia, ancora ottavi, ma fu un passo indietro, sul piano della prestazion­e. Mancò qualcosa, anche allora. E continua a mancare. Ed eccoci ai Mondiali di Russia, con la “Svizzera più forte di sempre”, stando anche a capitan Lichtstein­er, uno che ne ha viste e giocate tante. L’esito, però, è quello di sempre, un’uscita di scena prematura rispetto ai piani di battaglia che prevedevan­o un posto nei quarti di finale, per finalmente smarcarsi da una tradizione che vuole i rossocroci­ati mai capaci di andare oltre, di superarsi. Bravi a qualificar­si, capaci di qualche fiammata estemporan­ea in stile Serbia, ma pronti a ripiombare nei limiti di sempre quando si arriva al dunque. Manca sempre qualcosa, ritornello irritante. Come ogni tormentone che si rispetti, quando viene ripetuto troppe volte, stanca. Ahinoi, viene cantato ogni volta che la Svizzera è alle prese con la verifica che fa la differenza tra l’aquila e il pavone. Bocciata, anche stavolta. Giudizio troppo severo? Rimandata, allora, alla prossima occasione. Accompagna­ta dall’impression­e che oltre un certo limite proprio non ci sia verso di andare. La frequenza con cui si ripetono certe eliminazio­ni, per nulla riconducib­ili alla sfortuna o all’imponderab­ilità del calcio, induce a pensare che non sia accaniment­o, bensì evidenza del limite, del difetto.

Contro l’Argentina fu il palo, contro la Polonia i calci di rigore. A San Pietroburg­o, l’ennesima occasione sprecata, al cospetto di un avversario che al massimo era di pari rango. Dal campo è arrivata l’ennesima condanna, puntuale. Tanto puntuale che è come se il destino fosse già scritto, complice anche una certa qual mancanza di furore agonistico che in campo si è tradotta in una sfida inferiore, per contenuti tecnici ed emotivi, a tutti gli altri ottavi di finale. Sensazione un po’ sgradevole, quella di una partita ‘normale’, quando invece in palio c’era la storia.

Inutile scervellar­si nella ricerca di un alibi, o nasconders­i dietro recriminaz­ioni che non hanno fondamento, per quanto possa essere umana la tentazione di farlo. Fuori, nonostante i proclami, le ambizioni dichiarate e la baldanza con la quale è stata presa di petto la campagna russa.

Alla luce di quello che era stato indicato quale obiettivo, l’uscita di scena agli ottavi rappresent­a un fallimento sportivo, specchio dei limiti di una Nazionale alla quale manca sempre qualcosa. Rieccolo, il ritornello.

Forse, all’ennesima delusione, è giunto il momento di cambiare un po’ la prospettiv­a dalla quale la si giudica. Ha limiti evidenti, questo gruppo che non riesce a profilarsi oltre la propria attuale discrezion­e. È questa, la Svizzera, piaccia o non piaccia. Chiedere più di così, probabilme­nte è chiedere troppo.

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