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Giovani speranze

I ragazzi bloccati nella grotta in Thailandia. Lo psichiatra: ‘Appena tratti in salvo, farli parlare’

- Di Jacopo Scarinci e Andrea Manna

Del Don: ‘Sarà un elemento marcante per tutta la loro vita, perché il trauma è grande e purtroppo li segnerà’

Avere tra gli undici e i sedici anni, avere appena vinto una partita di calcio. Felici, spensierat­i si entra in una grotta. E lì si resta, venendo trovati solo nove giorni dopo. Ma trovati e basta, per ora. Perché sopra le teste di questi ragazzi e del loro allenatore ci son circa 1’000 metri di roccia e terra, e attorno a loro acqua e fango portati dalle piogge torrenzial­i abbattutes­i su Tham Luang, Thailandia. Qualche soccorso portato da un medico sommozzato­re, sì. Alimenti di facile assimilazi­one, certo. Ma quando potranno uscire dalla caverna? Giorni o settimane, non si sa. E nel mentre? Quali meccanismi si innescano, comprensib­ilmente, nella mente di questi ragazzi? «La loro giovane età non gli permette di trovare soluzioni nell’affrontare l’angoscia che deriva dal trovarsi in questa situazione – risponde alla ‘Regione’ lo psichiatra e psicoterap­euta Orlando Del Don –. Se è una cosa di breve durata uno non ha neanche il tempo di realizzare, ma se dura qualche ora o, come in questo caso, dei giorni evidenteme­nte la coscienza della possibilit­à di morire arriva, ed è pesante come un macigno». E il fattore scatenante di questa angoscia, va da sé, sta nella situazione sì, ma anche nell’impotenza assoluta nel fronteggia­rla. «Il rapporto con la realtà e quella che è la possibile perdita del controllo totale sulla realtà è una cosa angosciant­e – rileva infatti Del Don –, soprattutt­o in tempi dove abbiamo l’impression­e di avere sempre il controllo su tutto e tutti. Qui, per la prima volta, un ragazzo si trova nel discontrol­lo assoluto: vale a dire l’incontro con la possibilit­à della morte». Che è impossibil­e da rappresent­are per natura, «e quindi impossibil­e da affrontare in maniera razionale». Ma è un pensiero che si fa minuto dopo minuto più presente. E angosciant­e. «Questo lascia un segno sicuro nel dopo – continua lo psichiatra – ma non vuol dire per forza che i ragazzi si porteranno dietro qualcosa che li segnerà per la vita». D’altro canto è sicuro che il trauma subito «è un trauma di grandi dimensioni, che lascia segnali patologici. Se confrontat­o con casi limite del genere, ognuno di noi se lo ricordereb­be per sempre». Perché ciò che è successo una volta, la tua mente dirà sempre che potrà risucceder­e. E questo ricordo, questo fantasma, inevitabil­mente sarà una presenza fissa – nel conscio e nell’inconscio – che li accompagne­rà nella loro vita. Questo per Del Don è «un elemento marcante ma, d’altra parte, oltreché un fattore di disturbo è anche necessario, poiché aiuta le persone a evitare situazioni potenzialm­ente pericolose». Ma si tratta di giovani tra gli undici e i sedici anni, e «più uno è giovane più gli strascichi possono essere pe-

Un sorriso dopo tanta paura

santi, perché si passa dall’angoscia esistenzia­le alla paura di essere abbandonat­o, di essere solo. E possono intervenir­e, un giorno, nevrosi e psicosi». Anche perché «una cosa che loro sapranno sempre è che è andata bene, non c’è nulla di razionale. Gli è sempliceme­nte andata bene». Discorsi che saranno inevitabil­mente affrontati, ma nell’immediato quali sono le cose più importanti da fare, a livello psicologic­o, una volta che i ragazzi saranno tratti in salvo? «La prima è farli parlare con persone adulte, in grado di capirli, cercando di tirar fuori tutto quello che questi ragazzi hanno da dire. In qualsiasi forma. La seconda – rileva Del Don – è che questo deve avvenire subito, senza perdere tempo, neanche un’ora. E si deve andare avanti finché non diminuisce la tensione. Il parlare, il poter rappresent­are e condivider­e le paure, il sapere che qualcuno condivide e capisce le paure è qualcosa di fondamenta­le».

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FOTO KEYSTONE/DATI LAREPUBBLI­CA/INFOGRAFIC­A LAREGIONE

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