Giovani speranze
I ragazzi bloccati nella grotta in Thailandia. Lo psichiatra: ‘Appena tratti in salvo, farli parlare’
Del Don: ‘Sarà un elemento marcante per tutta la loro vita, perché il trauma è grande e purtroppo li segnerà’
Avere tra gli undici e i sedici anni, avere appena vinto una partita di calcio. Felici, spensierati si entra in una grotta. E lì si resta, venendo trovati solo nove giorni dopo. Ma trovati e basta, per ora. Perché sopra le teste di questi ragazzi e del loro allenatore ci son circa 1’000 metri di roccia e terra, e attorno a loro acqua e fango portati dalle piogge torrenziali abbattutesi su Tham Luang, Thailandia. Qualche soccorso portato da un medico sommozzatore, sì. Alimenti di facile assimilazione, certo. Ma quando potranno uscire dalla caverna? Giorni o settimane, non si sa. E nel mentre? Quali meccanismi si innescano, comprensibilmente, nella mente di questi ragazzi? «La loro giovane età non gli permette di trovare soluzioni nell’affrontare l’angoscia che deriva dal trovarsi in questa situazione – risponde alla ‘Regione’ lo psichiatra e psicoterapeuta Orlando Del Don –. Se è una cosa di breve durata uno non ha neanche il tempo di realizzare, ma se dura qualche ora o, come in questo caso, dei giorni evidentemente la coscienza della possibilità di morire arriva, ed è pesante come un macigno». E il fattore scatenante di questa angoscia, va da sé, sta nella situazione sì, ma anche nell’impotenza assoluta nel fronteggiarla. «Il rapporto con la realtà e quella che è la possibile perdita del controllo totale sulla realtà è una cosa angosciante – rileva infatti Del Don –, soprattutto in tempi dove abbiamo l’impressione di avere sempre il controllo su tutto e tutti. Qui, per la prima volta, un ragazzo si trova nel discontrollo assoluto: vale a dire l’incontro con la possibilità della morte». Che è impossibile da rappresentare per natura, «e quindi impossibile da affrontare in maniera razionale». Ma è un pensiero che si fa minuto dopo minuto più presente. E angosciante. «Questo lascia un segno sicuro nel dopo – continua lo psichiatra – ma non vuol dire per forza che i ragazzi si porteranno dietro qualcosa che li segnerà per la vita». D’altro canto è sicuro che il trauma subito «è un trauma di grandi dimensioni, che lascia segnali patologici. Se confrontato con casi limite del genere, ognuno di noi se lo ricorderebbe per sempre». Perché ciò che è successo una volta, la tua mente dirà sempre che potrà risuccedere. E questo ricordo, questo fantasma, inevitabilmente sarà una presenza fissa – nel conscio e nell’inconscio – che li accompagnerà nella loro vita. Questo per Del Don è «un elemento marcante ma, d’altra parte, oltreché un fattore di disturbo è anche necessario, poiché aiuta le persone a evitare situazioni potenzialmente pericolose». Ma si tratta di giovani tra gli undici e i sedici anni, e «più uno è giovane più gli strascichi possono essere pe-
Un sorriso dopo tanta paura
santi, perché si passa dall’angoscia esistenziale alla paura di essere abbandonato, di essere solo. E possono intervenire, un giorno, nevrosi e psicosi». Anche perché «una cosa che loro sapranno sempre è che è andata bene, non c’è nulla di razionale. Gli è semplicemente andata bene». Discorsi che saranno inevitabilmente affrontati, ma nell’immediato quali sono le cose più importanti da fare, a livello psicologico, una volta che i ragazzi saranno tratti in salvo? «La prima è farli parlare con persone adulte, in grado di capirli, cercando di tirar fuori tutto quello che questi ragazzi hanno da dire. In qualsiasi forma. La seconda – rileva Del Don – è che questo deve avvenire subito, senza perdere tempo, neanche un’ora. E si deve andare avanti finché non diminuisce la tensione. Il parlare, il poter rappresentare e condividere le paure, il sapere che qualcuno condivide e capisce le paure è qualcosa di fondamentale».