La Cina preoccupa sia Europa che Usa
Divisi dai dazi sull’acciaio, sui jeans e forse domani anche sulle Porsche, americani ed europei sono più vicini di quanto sembri su qualcosa di più importante: il loro rapporto con una Cina decisa a sfidare le potenze avanzate nelle nuove tecnologie. Jean-Claude Juncker alla Commissione europea non twitterà mai con la virulenza di Donald Trump. Eppure su certe questioni gli europei nella sostanza, se non sullo stile e nell’approccio, non sono poi così distanti dall’attuale presidente americano. Gli alleati transatlantici assistono con lo stesso nervosismo alla transizione della Cina da potenza manifatturiera a economia della conoscenza. Non tutto è uguale, naturalmente. La Commissione europea non sceglierà mai la strada delle ritorsioni commerciali unilaterali a largo raggio. Venerdì scorso Trump ha fatto scattare dazi su importazioni di prodotti cinesi per 34 miliardi di dollari e ha minacciato di estendere le misure su un volume commerciale da 500 miliardi di dollari se Pechino reagisse. Una simile aggressività è lontana dal linguaggio diplomatico dell’Europa, eppure qualcuno a Bruxelles deve aver letto con interesse un documento che la Casa Bianca ha pubblicato a fine giugno.
Il documento
Quel rapporto americano è inequivocabile fin dal titolo: “Come l’aggressione economica della Cina minaccia le tecnologie e la proprietà intellettuale degli Stati Uniti e del mondo”. Colpisce come quel testo, voluto dal consigliere di Trump Peter Navarro, riecheggi un simile documento europeo di pochi mesi prima. I toni sono diversi, i contenuti in parte no. Il rapporto americano suona come una dichiarazione di guerra industriale. L’altro, pubblicato dalla Camera di commercio europea in Cina alla fine del 2017, è dedicato al piano “China Manufacturing 2015” e suona tagliente fin dal titolo: “Privilegiare la politica industriale sulle forze di mercato”. La requisitoria della Casa Bianca non lascia spazio alle possibili ragioni – o motivazioni – dell’avversario. Il Ministero della sicurezza di Stato di Pechino, si legge, utilizza “non meno di 40mila addetti dell’intelligence all’estero” e ne mantiene “50mila all’interno del Paese”, in buona parte proprio per sottrarre proprietà intellettuale all’Occidente. Navarro solleva l’allarme sui 300mila cinesi che frequentano le università statunitensi e sul loro possibile reclutamento come spie di Pechino. Quindi il rapporto della Casa Bianca denuncia che uno studio condotto dal gruppo di telecomunicazioni Verizon ha prodotto risultati sorprendenti: su 47mila “incidenti di sicurezza” negli Stati Uniti, nel 96% dei casi riconducibili a spionaggio industriale sono stati individuati “operatori cinesi”. Secondo le stime riportate, per l’America il costo del furto di segreti commerciali da parte di Pechino è fra i 180 e i 540 miliardi di dollari l’anno. Le accuse della Casa Bianca alla seconda economia mondiale sono di una durezza con pochi precedenti anche all’epoca della guerra fredda: “Per più di un decennio il governo cinese ha condotto e sostenuto intrusioni cibernetiche nelle reti commerciali americane mirando a informazioni confidenziali detenute da imprese americane”. Il rapporto accusa Pechino di utilizzare «trappole del debito» di natura “predatoria” offrendo prestiti a Paesi in via di sviluppo per poi obbligarli a cedere il controllo delle loro materie prime: bauxite, rame, nickel, ma soprattutto minerali più rari e preziosi per i loro usi tecnologici come il berillio, il titanio e le terre rare. Soprattutto il controllo preponderante di Pechino su queste ultime allarma la Casa Bianca, perché le terre rare rappresentano più del 50% del costo delle turbine a vento e il 60% del costo degli schermi a cristalli liquidi.
Visioni comuni
C’è però soprattutto un punto sul quale la denuncia della Casa Bianca coincide con quella della Camera di commercio europea: Pechino impone alle imprese estere che vogliono fare affari in Cina di rendere note e trasferire nel Paese le loro tecnologie. Segue a pagina 22