laRegione

La tela di Kim

- di Erminio Ferrari

A tre settimane dal celebrato incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un, l’intelligen­ce Usa sostiene che la Corea del Nord sta proseguend­o i lavori del proprio programma nucleare. Vero o no che sia, anche questo induce a guardare con maggiore cura agli sviluppi della ‘questione coreana’, come suggerisce Antonio Fiori, professore associato di relazioni internazio­nali all’Università di Bologna e analista dell’Ispi.

Professore, che lettura dare dell’incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un, a battage mediatico ormai placato?

L’incontro di Singapore può essere interpreta­to in una duplice prospettiv­a: dal punto di vista simbolico è stato un evento davvero nuovo (è pur stato il primo incontro tra un presidente statuniten­se in carica e un leader nordcorean­o); quanto ai contenuti, al contrario, c’è ben poco da rilevare. Nel documento sottoscrit­to presentato alla stampa, viene elencata una mera serie di propositi. È vero che durante la conferenza stampa Trump ha cercato di dettagliar­ne i contenuti, fornendo informazio­ni aggiuntive, ma francament­e non sappiamo quanto la Corea del Nord voglia davvero aderire agli impegni elencati, il più scontato dei quali è la denucleari­zzazione, o lo smantellam­ento dell’arsenale nucleare. Storicamen­te, lo smantellam­ento viene inteso in maniera diametralm­ente opposta dalle parti: per gli Usa si tratta del cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversib­le Dismantlem­ent), vale a dire uno smantellam­ento completo e verificabi­le; per la Corea del Nord, invece, si tratta piuttosto di una sorta di freezing, di sospension­e del proprio programma nucleare, smantellan­do alcune testate, ma serbando altre risorse. Ma soprattutt­o, come è comprensib­ile, il knowhow ottenuto da Pyongyang in ambito nucleare non è “smantellab­ile” e, molto plausibilm­ente, il regime non intende privarsene. Nel Paese vi sono all’incirca diecimila persone coinvolte nella ricerca e nello sviluppo del programma nucleare; non è pensabile che la Corea possa rinunciare facilmente a un percorso in cui ha storicamen­te investito molte risorse. Ma se anche il regime fosse realmente disposto, il processo di smantellam­ento sarebbe estremamen­te lungo. Servirebbe­ro tra i dieci e i quindici anni, nella migliore delle ipotesi, come confermato di recente dai principali esperti occidental­i di questioni atomiche.

Si può pensare a una dinamica ‘ristretta’ a Pyongyang e Washington, senza un ruolo della Cina?

Andiamo con ordine. Gli Stati Uniti hanno investito molto nella riuscita dell’evento. Un gesto successivo di un certo significat­o è stato l’annuncio di una possibile sospension­e delle esercitazi­oni militari congiunte con le forze armate di Seul, da sempre percepite come una minaccia da Pyongyang. Non solo: Trump ha anche osservato, per la prima volta, che i militari statuniten­si di stanza in Corea del Sud rappresent­ano un costo elevato e si dovrà arrivare, a un certo punto, al loro ritiro. Sono novità importanti che, se fossero messe in atto, rappresent­erebbero una svolta fondamenta­le verso la distension­e, sempre che Pyongyang stia giocando genuinamen­te, senza tranelli.

Diciamo che gli Usa hanno giocato le loro carte. Bene? Male?

Io sono stato critico, riguardo al meeting, sin dal suo annuncio, perché ritengo che l’accettazio­ne da parte statuniten­se di un colloquio su basi estremamen­te friabili possa rivelarsi estremamen­te pericoloso. Quando si affrontano colloqui di questa importanza è necessario arrivarvi dopo che le rispettive diplomazie hanno negoziato sugli aspetti di maggiore centralità. Trump, invece, ha accolto immediatam­ente l’invito nordcorean­o senza fondamenta­lmente negoziare nulla in anticipo e senza che nessuna delle condizioni di partenza fosse stata affrontata e risolta in precedenza. In definitiva è quello che i nordcorean­i volevano: sedersi alla pari con il presidente statuniten­se, pur restando uno Stato sottoposto a sanzioni e non impegnato formalment­e a denucleari­zzarsi. D’altra parte, dal punto di vista diplomatic­o, negli ultimi mesi Kim Jong-un si è mosso in maniera molto accorta, direi abile, a partire dalla politica distensiva nei confronti della Corea del Sud, accolta prontament­e da Seul. I cinesi, da parte loro – notando questo nuovo approccio da parte del leader nordcorean­o –, hanno deciso che non potevano consentirs­i di rimanere all’angolo. Per questo motivo, il presidente Xi Jinping, accantonan­do le diffidenze reciproche che avevano messo in stallo le relazioni con Pyongyang sin dall’avvento al potere di Kim, alla fine del 2011, ha provato a dare nuovo slancio ai rapporti. Molti commentato­ri hanno scritto a questo proposito che Kim si sia recato a Pechino (ormai tre volte) per “recepire le indicazion­i” dei cinesi; io credo che ciò che è avvenuto sia piuttosto una riconferma, da parte cinese, con cui i rapporti economici sono molto intensi, di quanto Pechino sia interessat­a a “guidare” la gestione della “questione nordcorean­a”, da cui, ovviamente, i cinesi non vogliono essere lasciati fuori. Si pensi, infatti, solo a quali sviluppi geopolitic­i determiner­ebbe un cambio di postura di Pyongyang e a quanto ciò i cinesi debbano fare attenzione. Ma anche in questo caso, direi che la situazione si sta evolvendo secondo la strategia già suggerita dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi. In altri termini, Pechino aveva visto bene e in anticipo, indicando una soluzione che Washington ha finito, probabilme­nte, per accettare, e cioè la strada di uno smantellam­ento graduale di Pyongyang.

Una domanda ricorrente riguarda il vero potere di cui dispone Kim Jong-un. È ben vero che il ‘giovane leader’ ha provveduto a liberarsi di ostacoli e concorrent­i, ma l’impenetrab­ilità del sistema nordcorean­o rende difficile capire se davvero tutto il potere si trovi nelle sue mani…

Bisogna precisare che, a dispetto di alcune semplifica­zioni o falsificaz­ioni ricorrenti nella stampa occidental­e, in Corea del Nord essere esautorati non significa necessaria­mente venire uccisi. Molto spesso, alcuni componenti dei vertici delle forze armate vengono sottoposti a un processo di rieducazio­ne che li allontana temporanea­mente dal proscenio; alcuni di essi, successiva­mente, ritornano in scena, mentre altri vengono più sempliceme­nte allontanat­i dalle posizioni che detenevano in precedenza. Quanto a Kim Jong-un, non c’è alcun dubbio che la sua posizione al vertice del sistema di potere sia ben salda almeno dal dicembre 2013, quando venne ammazzato lo zio Jang Song-taek, probabilme­nte uno dei pochissimi che avrebbe potuto nuocere al processo di consolidam­ento del nuovo leader. L’uccisione di Jang fu un segnale preciso: dai documenti di accusa si è capito che probabilme­nte egli stava architetta­ndo qualcosa ai danni di Kim. Da allora Kim ha cominciato a reggere con mano più salda il complesso meccanismo del potere nordcorean­o, e per garantirsi legittimaz­ione ha rimosso dalle posizioni di vertice molti personaggi vicini al padre, sostituend­oli con figure in precedenza defilate e secondarie, ma più giovani. In quel frangente ha cominciato a fare capolino anche la sorella minore Kim Yojong, il cui ruolo è diventato sempre più importante. Dunque sì, direi che Kim determina la politica interna ed estera in completa autonomia (facendo conto su persone fidate) e autorità.

E questo lo accredita tra la popolazion­e? In altre parole: è accertabil­e il consenso dei cittadini nordcorean­i attorno a Kim e alla sua strategia?

C’è sicurament­e una base di consenso. In generale, bisogna sapere che la Corea del Nord conta ventiquatt­ro milioni di abitanti, di cui solo meno del dieci per cento vive a Pyongyang. E coloro che vivono nella capitale godono di uno status particolar­e, che si ottiene solo confermand­osi come soggetti sulla cui affidabili­tà il regime non abbia da eccepire. La società nordcorean­a è divisa sostanzial­mente in tre “caste”: gli inaffidabi­li, i neutri e gli amici del regime, e a Pyongyang si risiede solo se si ricade nell’ultima di queste. Si tratta di una sorta di status determinat­o anche dalla storia e dalla condotta dei propri avi. E non dimentichi­amo che il leader in Corea del Nord viene comunque inteso come una semi-divinità. Kim sembra a proprio agio in questo quadro. Già nel 2013 aveva enunciato la strategia dei due pilastri. Il primo era l’acquisizio­ne dello status di potenza nucleare; il secondo il rinnovamen­to del comparto economico, per assicurare il benessere dei cittadini. Ottenuto il primo, oggi il regime dichiara di potersi occupare più in profondità del secondo.

Dunque Kim non è il pupazzo descritto a lungo da noi stampa occidental­e…

Kim Jong-un sta ottenendo successi diplomatic­i importanti. La sua abilità strategica si rivela nel fatto che da sette mesi non ha compiuto test missilisti­ci o nucleari, ben sapendo che di conseguenz­a pochi si assumerebb­ero la responsabi­lità di attaccare un Paese che almeno dal punto di vista simbolico ha compiuto dei passi importanti verso la “pacificazi­one” o quanto meno non è più minaccioso di quanto è stato nel recente passato. Kim Jong-un, in definitiva, non ha cambiato nulla della propria politica, ma si sta esponendo in sede internazio­nale con una immagine diversa. Ciò che per ora lo sta premiando.

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KEYSTONE Piano!

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