laRegione

Lacerate in Africa condannate qui

- di Simonetta Caratti

In Senegal, la chiamano la ‘maestra del coltello’, tra danze, sangue, urla e preghiere, ‘aiuta’ le bambine a diventare donne. Così vuole una tradizione barbara. Ma rituali di mutilazion­e genitale sono praticati in Sudan, Eritrea, Somalia, Etiopia… dove si stima che il 98% delle donne l’abbia subita. Alcuni Paesi africani la vietano, ma quando una credenza ha messo radici, passando di madre in figlia come il latte materno, è difficile estirparla. Chi non si sottomette rischia di venire considerat­a una poco di buono. La pressione sociale è talmente forte che questa ‘maledizion­e’ insegue le bambine africane anche in Svizzera, perché quando una credenza è nella mente, c’è qualcosa di ‘magico’ che la alimenta e la razionalit­à ha le armi spuntate.

In Svizzera 14mila ragazze sono state vittime di una mutilazion­e genitale o lo saranno presto, vista l’affluenza di rifugiati da Paesi dove questa pratica è diffusa. Cifre enormi raccolte dal gruppo di Ong che, su mandato della Confederaz­ione, ha creato lo scorso anno una nuova piattaform­a online nazionale

(www.mutilazion­i-genitalife­mminili.ch) per informare le dirette interessat­e e i profession­isti (personale sanitario, assistenti sociali, magistrati, docenti). Una violazione dei diritti umani che la Svizzera giustament­e non tollera. Da sei anni è in vigore l’articolo 124 del Codice penale svizzero che sanziona chi impone queste mutilazion­i o lo sapeva, ma ha taciuto. Anche se avvengono all’estero, il reato può essere giudicato in Svizzera, se la persona vi risiede o è in transito. E le conseguenz­e sono pesanti, fino a 10 anni di carcere.

Ieri a Neuchâtel è stata condannata ad otto mesi di carcere con la sospension­e (vedi a pagina 5) una madre somala, che ha fatto sottoporre entrambe le due figlie alla rimozione del clitoride in Somalia, quando avevano sei anni. Mutilazion­i effettuate fra gennaio 2013 e novembre 2015 in Africa, poco prima che la donna arrivasse in Svizzera nell’ambito di un ricongiung­imento familiare. Vittima della medesima sorte la stessa madre quando era piccola.

La condanna di questa donna analfabeta, con quattro figli e separata dal marito, avrà veramente un senso se la sua storia passerà di bocca in bocca, nelle popolose comunità somale ed eritree che vivono in Svizzera e in Ticino. Ma chiediamoc­i: anche se il tamtam dovesse funzionare, basterà la paura di una condanna ad estirpare una credenza millenaria? Punire queste barbarie è doveroso, informare è urgente, ma forse ci vorranno più generazion­i per vedere qualche risultato.

A fare davvero la differenza saranno le ‘testimonia­l’ di questa cultura, chi fa ‘outing’ e dice basta. Donne musulmane coraggiose che sanno parlare alle loro connaziona­li. Come Amal Bürgin, musulmana che vive da tempo a Basilea e si batte contro questo tabù. Ha raccontato la sua infibulazi­one in Sudan sulla ‘Regione’: “Mia madre disse che quel rituale si tramanda da generazion­i, era per il mio bene, così da mantenermi ‘pura’ fino al matrimonio”.

A 5 anni, Amal fu portata al centro di mutilazion­e genitale rituale di Khartum: le hanno asportato clitoride, labbra e cucito l’apertura vaginale. Solo un piccolo foro permetteva l’espulsione di urine e sangue mestruale. «Ricordo l’anestesia locale, l’ago che mi ricuciva... e il dolore. Dissero che così diventavo donna. Quel giorno mi fecero regali, congratula­zioni... ma io piangevo dal male ogni volta che dovevo urinare». C’è chi resta incontinen­te, chi ha problemi al parto e chi diventa sterile.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland