Il reality e la Storia
Fortemente voluto da Donald Trump, l’incontro con Vladimir Putin, lunedì a Helsinki, cade in un momento di estrema confusione, generata dalla politica erratica del presidente statunitense. Il capo della Casa Bianca arriva al vertice senza un’agenda, riven
Mosca – Non si farà la Storia, ma anche la Storia passerà da Helsinki, probabilmente in forma di reality show, dove Vladimir Putin e Donald Trump terranno, lunedì prossimo, il loro primo summit bilaterale, dopo essersi già incontrati due volte a margine di eventi internazionali. Lo scandalo “Russiagate” sulle presunte interferenze di Mosca durante le presidenziali Usa nel 2016 ha costretto finora i due governi a centellinare i contatti, ma il tempo passa e vi sono questioni (Ucraina, Siria, Iran, Cina, Corea, sanzioni economico-finanziarie) da affrontare una volta per tutte per evitare gravi ed imprevedibili conseguenze. Le anticipazioni della vigilia sono state a dir poco esplosive. È sembrato che la Casa Bianca abbia tastato il terreno in vista di aperture al Cremlino, con mezze frasi sfuggite e non confermate, e allo stesso tempo che gli avversari del presidente Usa abbiano messo le mani avanti. È bastato un “vedremo”, pronunciato da Trump sull’Air Force One davanti alla stampa nazionale, per provocare lo scompiglio in Europa centro-orientale. Sulla base di quanto già affermato a margine del recente G7 canadese, il presidente Usa potrebbe decidere di revocare le sanzioni contro la Russia e di riconoscere “l’annessione” della Crimea da parte di Mosca nel 2014. Tali scelte andrebbero in netto contrasto con la decennale politica di Washington in Europa e con la linea varata all’unanimità dall’Occidente all’indomani dello scoppio della crisi ucraina. Se in Russia le possibili aperture di Trump sono viste positivamente, di segno opposto è quanto si regista in Ucraina, Polonia e nei Paesi baltici, Stati che sono sulla linea del fronte e vivono con la paura del risveglio di incubi passati. Che qualcosa di realmente importante stia per accadere e che il nervosismo negli ambienti politico-diplomatici sia alto è testimoniato anche dalle dimissioni inaspettate dell’ambasciatore americano in Estonia James D. Melville jr., stufo delle continue dichiarazioni critiche di Trump contro gli alleati europei e della Nato. Il capo della Casa Bianca, ancora nell’ultimo vertice della Nato, ha sollevato il problema del finanziamento dell’Alleanza, troppo dipendente, a suo dire, dai dollari di Washington. In passato su questo capitolo Barack Obama non riuscì ad ottenere alcun risultato. Le sanzioni occidentali contro Mosca, ulteriormente rafforzate nei mesi scorsi, verranno, quindi, sospese? È presto per dirlo. Probabilmente Trump, come al solito, sta solo alzando la posta, con l’obiettivo di far aprire agli europei i cordoni della borsa. Lo spauracchio utilizzato è la Russia. Nel caso che Washington facesse mancare il proprio impegno in Europa, ai Ventisette (con in più il Regno Unito) non resterebbe altro che andare a marce accelerate verso la creazione di proprie Forze armate.
Le scelte degli europei
Gli europei dovranno pertanto fare presto delle scelte non facili e Trump è intenzionato a metterli in quella scomoda situazione. Con la creazione di proprie Forze armate, da potenza economica e dei diritti l’Ue, che non voleva essere potenza geopolitica, sarebbe costretta a mutare la propria natura. Più difficile credere all’azzardato riconoscimento dell’annessione della Crimea. Le ripercussioni internazionali ed interne (per la presenza in America di fortissime lobby centro-europee) contro Trump sarebbero incalcolabili. Verrebbe superata l’intoccabilità delle frontiere, uno dei principi che ha garantito la pace in Europa dal 1945 ad oggi. L’Europa tornerebbe potenzialmente ad essere quel campo di battaglia che la nascita dall’Ue ha definitivamente relegato nei libri di storia. Sfruttando il precedente della Crimea, chiunque potrebbe pretendere a territori altrui. E se si prosegue su questa linea, Polonia e Paesi baltici, che hanno aderito all’Unione europea nel 2004 soprattutto per sfuggire alla loro complessa situazione geostrategica, si troverebbero del tutto sguarniti a est. Senza andare troppo in là, ci si domanda se non sono bastati 50 anni di occupazione da parte dell’Urss di quelle terre. La Russia di oggi non è certo l’Unione Sovietica di Jozif Stalin, né per potenza militare né per influenza politica, ma cosa è realmente successo in Crimea lo sanno tutti: anche quelli che fanno finta di niente o si inventano le teorie più strane. Dimenticarsi poi della tragedia – ancora in corso – dell’Ucraina orientale è un esercizio difficile da eseguire.
Colpo di spugna
Con un sol colpo, il capo della Casa Bianca butterebbe al vento decenni di lavoro degli Stati Uniti in questa regione del mondo. Con la politica dell’“America first”, Trump sta mettendo a rischio la consolidata egemonia di Washington nei quattro angoli del pianeta ed il lento ritiro di Obama – ad esempio dal Medio Oriente dopo il disastro di George W. Bush con l’intervento in Iraq contro Saddam Hussein – si sta trasformando in una fuga a rotta di collo. Idem in campo commerciale, dove il suo predecessore era riuscito ad ingabbiare la Cina con la firma del Partenariato transpacifico. E ora ci si è ridotti alla guerra dei dazi non solo contro Pechino, ma anche contro i propri alleati. In Finlandia un qualche riavvicinamento con Mosca ci sarà comunque, nonostante che le due Amministrazioni abbiano per adesso tenuto le debite distanze per le questioni giudiziarie interne di Trump, che necessita della Russia in chiave anti-cinese e per tenere a bada gli iraniani. Appunto il Medio Oriente. Le lobby ebraiche vicine al presidente Usa pretendono che l’accordo internazionale sul nucleare con Teheran, sponsorizzato con successo da Mosca, venga definitivamente cancellato. I russi, invece, sono a fianco degli europei con la volontà di mantenerlo. Il Cremlino è allo stesso tempo l’attore che dovrebbe impedire l’apertura di stabili basi militari degli ayatollah nei territori governativi controllati da Bashar al Assad. Tel Aviv ha a più riprese inviato i propri bombardieri a colpire laggiù i pasdaran iraniani e Putin ha trattenuto a fatica il premier israeliano Netanyahu dal compiere passi ancor più perentori. Teheran minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz ed il Golfo Persico, da dove transitano enormi quantità di greggio, mossa che porterebbe lo scompiglio sui mercati internazionali. Trovare un’intesa in questo rompicapo non sarà assolutamente semplice. Più agevole appare la situazione nella penisola coreana. In questo contesto Mosca, che condivide una frontiera con Pyongyang, spinge per il ritiro dalla regione delle armi pesanti americane, troppo vicine al suo Estremo Oriente e a Vladivostok, sede della Flotta del Pacifico. Trump lavorerà affinché i russi non mettano i classici bastoni tra le ruote nel processo di riconciliazione, adesso in corso. Il presidente americano di certo non apprezza l’asse politico-economico anti-occidentale che di fatto Mosca ha costituito con Pechino rivelando la volontà di non usare più il dollaro in determinate transazioni commerciali con Paesi amici. Tenterà di convincere Putin che nei prossimi decenni questa situazione nuocerà agli interessi globali russi ed un gigante come quello cinese alle frontiere potrebbe un giorno avere atteggiamenti non più amichevoli come oggi. Ma senza andare troppo in là nel tempo il Cremlino deve sciogliere alcuni nodi in fretta. Mosca non può più permettersi di tirare la crisi con l’Occidente alle lunghe, principalmente per ragioni economiche anche se l’aumento del prezzo del petrolio le sta dando non poco ossigeno.
Verso un autunno caldo
Appena spenti i riflettori del Mondiale di calcio, l’“autunno caldo” si farà subito sentire: la criticatissima riforma delle pensioni sta per essere approvata, la gente continua ad impoverirsi, l’economia persiste a non dare segni di risveglio, mentre i prezzi aumentano a dismisura. L’impossibilità di rifinanziarsi sui mercati finanziari blocca qualsiasi progetto in campo energetico ed in questo scenario la Russia non ha futuro. Ecco quanto fino ad adesso sono costati la spericolata “annessione” della Crimea ed il desiderio di tornare a sedersi ai tavoli negoziali mondiali che contano. In conclusione, le “rivoluzionarie” scelte di Trump, se confermate, daranno ragione a quanti intendono imporre il proprio volere unilateralmente contro quello della comunità internazionale. Sono un passo indietro verso tragici scenari passati e verso quel mondo delle sfere d’influenza, tanto amato da Putin e dai nostalgici sovranisti di un’Europa ormai dimenticata. Il Cremlino, dal canto suo, spera ad Helsinki di passare all’incasso: concessioni geopolitiche nell’estero lontano in cambio delle sanzioni. Nessun passo indietro nel “vicino estero”, leggasi spazio ex sovietico o “cortile di casa”. E sulla Crimea, nessuna discussione: è “terra russa” e rimarrà tale.