Il dio dell’armonia
Gioachino Rossini
Mentre a Lugano ci si prepara alla prima opera prodotta dal Lac, il Barbiere di Siviglia, riscopriamo la figura del grande compositore a 150 anni dalla morte. Un ruolo centrale, il suo, nel delineare i conflitti latenti nella creazione musicale del suo tempo e nel determinare ciò che sarebbe seguito. Ma anche, in quanto ‘star’ della sua epoca, nel rileggere una pagina politica, fra monarchia e moti risorgimentali...
In una lettera del 10 maggio 1819 inviata al padre di Rossini da Gherardo Bevilacqua – pittore, scenografo e librettista, testimone a Napoli dei festeggiamenti per la visita dell’Imperatore d’Austria, in cui fu eseguita una cantata del Pesarese – leggiamo questo rivelante resoconto: “Ed ho inteso co’ miei orecchi il Re di Sassonia dire con il Re di Napoli, che la musica d’oggidì è alquanto guastata dalla eccedente istromentatura. Il Re di Napoli a lui rispose, che ciò era succeduto solamente dopoché Mozart, ed in conseguenza i Tedeschi han riformata la musica in Italia. Ma proruppe Meternik con enfasi, e disse: Rossini è il solo che piace con tutto ciò – Egli è il vero Genio musicale del Mondo, al che tutti dissero Sì”.
Musica: monarchica o repubblicana
Da tali parole si può ben capire come quel volger d’anni fosse davvero cruciale per il destino delle espressioni artistiche e per la musica in particolare, la quale mai prima d’allora si era trovata ad affrontare una divaricazione di linee estetiche, caricata in tal modo di senso politico. D’altra parte non è senza significato la metafora usata da Giuseppe Carpani (Le Haydine, 1823) nel definire la nuova concezione emergente dal modello di musica strumentale che si era imposto attraverso Haydn: “La musica era una monarchia: sovrano il canto, sudditi gli accompagnamenti. Quel genere di musica, in cui non entra l’umana voce, ma di soli strumenti è composta, questa repubblica di diversi suoni e insieme uniti, nella quale ogni strumento ha diritto di figurare e figura, cominciato aveva appena a mostrarsi sullo scadere del secolo XVII, e credo per opera del Lulli, che primo inventò le sinfonie dette ouvertures; ma anche in esse si sentiva la monarchia [...].
Fa specie, da parte di un intellettuale deliberatamente allineato al potere asburgico, il disinvolto impiego di tali termini (“monarchia”, “repubblica”, “sudditi”, “diritto”) tutt’altro che neutri in quegli anni di restaurazione carichi di tensioni e di lacerazioni, anzi contenenti una forte carica esplosiva, per di più assunti per commentare un processo estetico di emancipazione che sottintendeva il riconoscimento del naturale corso storico contrastante con la visione di un ordinamento statico dei ruoli. Anche per questo – per il simbolico orientamento ‘monarchico’ dell’opera italiana dominata dalla melodia a fronte di quello ‘repubblicano’ della musigestirvi ca strumentale tedesca – è sintomatico il fatto che nel 1822 Metternich invitasse Rossini a comporre la cantata La Santa Alleanza per il Congresso delle nazioni tenutosi a Verona in conseguenza dei moti del ’21 e del ’22 che segnarono l’inizio del Risorgimento. Nella lettera spedita al Pesarese, di cui Rossini riferì nella nota conversazione a Ferdinand Hiller (‘Plaudereien mit Rossini’, 1855) leggiamo: “[...] dal momento che ero le Dieu de l’harmonie, mi scriveva, avrebbe desiderato che venissi dove di armonia c’è tanto bisogno”. È inoltre indicativo che “il cocchiere d’Europa” ribadisse lo stesso concetto proprio nei giorni in cui sarebbe scoppiata la campagna d’Italia del 1859. In una lettera del 12 aprile di quell’anno, a Rossini ormai rinserrato nella sua residenza di Passy nei pressi di Parigi, si rivolgeva con queste parole: “Perché vi costituite carceriere e perché preferite questo compito a quello di essere il dispensatore di nobili godimenti? Il mondo ha bisogno di armonia […] voi non avete il diritto di tacere”. Non per niente, con sguardo acuto, in un articolo apparso nel 1837 nell’Allgemeine Theater-Revue programmaticamente intitolato ‘Politische Oper. Rossini und Meyerbeer’, Heinrich Heine arrivò a cogliere la natura di colui che viene chiamato il “cigno di Pesaro”: “La musica di Rossini era più adeguata all’epoca della Restaurazione, in cui, dopo grandi lotte e delusioni, presso la gente boriosa, il senso per i grandi interessi collettivi dovette retrocedere in seconda linea, ed i sentimenti dell’io poterono rientrare nei loro diritti legittimi’.
Un significato politico stava quindi dietro la chiamata a Vienna proprio del regista del successo napoletano del Pesarese, Domenico Barbaja, il primo degli impresari italiani chiamati a l’Hoftheater ininterrottamente fino alla rivoluzione del 1848, imponendo Rossini e i successivi maestri (fino a Donizetti, nominato nel 1842 Hof-und-Kammerkompositeur alla corte imperiale) a cui, in virtù del carattere sovrannazionale della musica italiana, fu affidato il compito di arginare nella capitale asburgica la penetrazione dell’opera tedesca (con il pericoloso richiamo, attraverso la lingua e il riferimento popolare, all’implicata idea di nazione).
La funzione politica degli italiani
È evidente che, a quello stadio, la presenza della musica italiana nella capitale asburgica assumeva una funzione politica, ancor più dell’italiano, che come lingua imperiale, attraverso la simbolica carica prestigiosa del ‘poeta cesareo’ (rivestita da figure quali Apostolo Zeno, Pietro Metastasio, Ranieri de’ Calzabigi) lasciò un segno profondo nella realtà locale. Mentre cantate e oratori quali ‘Leier und Schwert’ e ‘Kampf und Sieg’ di Weber oltre a ‘Die Befreiung Deutschlands’ di Spohr venivano ostacolati dalla censura, il 17 dicembre 1816 a Tancredi arrise un successo trionfale, accendendo con l’ardente tema della sua celebre aria la fantasia edonistica dei melomani: “Di tanti palpiti” furoreggiava ovunque. L’identificazione della musica italiana con l’ufficialità asburgica arrivò al punto che, quando il vento del ’48 travolse anche Vienna, gli insorti non esitarono a prendere di mira i cantanti italiani, minacciandoli, bruciando un’effige di Rossini e facendo a pezzi i cartelloni della loro stagione operistica. Tornando a Carpani, se da una parte egli fu colui che, con la sua vasta azione pubblicistica, più di ogni altro fu impegnato a rompere la diffidenza degli italiani verso i modelli provenienti dal nord, dall’altra propagandò con efficacia l’esemplarità per tutta la musica europea della musica italiana a prevalenza vocale, in visione ‘imperialistica’ e in funzione degli interessi asburgici. Non lo rivelava solo la scelta di parlare dalla tribuna della “Biblioteca italiana”, dell’organo ligio alle autorità del Regno Lombardo-Veneto, ma anche la corrispondenza con la nobildonna Isabella Teotochi-Albrizzi, alla quale confidò le sue convinzioni perfettamente allineate col potere aristocratico: “Io me ne sto grazie a Dio in un paese che è tanto lontano dalle rivoluzioni quanto lo è il gelo dal fuoco” (22 luglio 1818). Uomo d’ordine che aborriva “la peste delle costituzioni” (12 marzo 1819), che dichiarava la sua fedeltà all’Austria, “riflettendo alla mitezza del suo Governo” (23 gennaio 1808), si accalorava in seguito alla piega che prendevano i lavori del Congresso di Vienna, quando fu prospettata la “Lega Italica” con a capo l’Imperatore d’Austria (6 maggio 1815). Ecco allora presentarsi l’occasione di affidare in modo più o meno illusorio la supremazia musicale italiana, che non era possibile ottenere con le armi, ai riconosciuti successi rossiniani, di cui Carpani sottolineava la portata continentale, mentre, riferendosi nel contempo alla fallita impresa napoleonica recentemente archiviata, poteva celebrare nella figura radiosa di Rossini la rivincita della reazione perlomeno in termini artistici.