L’ottimismo regna sovrano
Se vogliamo credere alla stragrande maggioranza degli investitori, avremo dinanzi a noi almeno altri due anni piuttosto felici per le Borse e l’economia. Dei 76 operatori intervistati dal ‘Wall Street Journal’, il 59% s’aspetta una recessione nel 2020, un altro 22% l’anno successivo e un buon 11% non prima di quattro anni: cosicché la percentuale di chi vede il futuro relativamente roseo sarebbe un abbondante 92%. Una minoranza prospetta il peggio già il prossimo anno: ma si tratta probabilmente dei soliti pessimisti, quelli che la recessione dicevano di vederla già anni fa. Sorprende che nessuno abbia risposto con un saggio “non so”. Eppure, come dimostra l’analisi dei passati cicli economici, quasi sempre gli operatori sono stati colti impreparati da una recessione e si sono accorti che le cose volgevano al peggio solo quando erano rimasti irrimediabilmente invischiati. Siccome la storia insegna assai poco, ognuno pensa di avere gli strumenti per capire quando s’avvicina la fine di un ciclo. Non a caso, due terzi degli intervistati sono convinti che la recessione arriverà quando la Fed, per rispondere a un’economia surriscaldata, alzerà troppo i tassi d’interesse. In questa tesi, che confonde l’effetto con la causa, c’è ben poca ingenuità e tanta strumentalità, poiché paventare continuamente un “errore di politica monetaria”, da mesi il massimo timore degli investitori nel periodico sondaggio di Bofa, serve a mettere pressione alla banca centrale e dissuaderla dal rendere troppo caro il costo del denaro. Che un’eventuale recessione possa esser provocata da una bolla speculativa o da una crisi finanziaria o da uno shock è preoccupazione che nel sondaggio del ‘Wsj’ attiene solo al 5% degli investitori. Segnali d’inversione del ciclo economico per ora non se ne vedono. La crescita americana è robusta e l’indice Ism (composito) è pressoché ai massimi storici. Se l’indicatore di Citi, che misura le sorprese economiche, è finito a zero è solo perché le attese degli investitori, eccitati dai tagli fiscali, si sono rivelate eccessive. Anche il rallentamento della crescita in Europa non sembra tale da far deragliare l’economia mondiale. Ma i segnali di pericolo abbondano e provengono proprio da quei fattori esogeni di cui solo il 5% degli investitori dice d’essere preoccupato. Tra questi c’è la minaccia di una guerra commerciale, che non va sminuita come “semplice retorica di Trump”, perché “è già iniziata e proseguirà”, sostiene lo strategist politico di Morgan Stanley. Gli effetti di questa guerra già s’intravedono sui mercati cinesi con il crollo della Borsa e la continua svalutazione dello yuan: una condizione che rimanda, a detta di Jp Morgan, alla crisi del 2015. A differenza d’allora, il collasso dei mercati non è il risultato delle vendite dei piccoli investitori, che s’erano persino indebitati per acquistare azioni, ma degli istituzionali, i quali stanno velocemente riducendo anche la loro leva finanziaria, ripagando i debiti contratti in passato. Se questo processo dovesse continuare, e Jpm lo ritiene probabile, la Cina diventerebbe “l’epicentro di un nuovo sconquasso tra i Paesi emergenti”. I quali, già alle prese con Borse in caduta (l’indice ha perso il 17% da fine gennaio), hanno visto le loro valute svalutarsi mediamente dell’11% in 5 mesi: e così si trovano con debiti espressi in dollari (a fronte d’investimenti domestici) lievitati in poco tempo in maniera più che preoccupante: come per il Brasile (+26%) o l’Argentina. Secondo BofA, la situazione ricorda terribilmente quella della crisi asiatica del 1998 e del fallimento del fondo Ltcm. Vent’anni fa ci pensò Alan Greenspan a “salvare” la finanza mondiale tagliando i tassi Fed. Questa volta ci penserà Jerome Powell, ragionano gli ottimisti, senza considerare che l’ammontare dei debiti sparsi per il mondo e lo spropositato uso della leva finanziaria nelle più svariate manifestazioni sono di gran lunga superiori a 20 anni fa. La situazione sembra ancor più pericolosa di quella del 2007, alla vigilia della Grande recessione. Non è dato sapere cosa possa innescare una nuova crisi finanziaria: non ci sono i mutui subprime, ma di carta costruita su attività a rischio (dai prestiti auto ai bond a basso rating) e moltiplicata dai derivati ce n’è in giro ben più di 11 anni fa. Basterebbe un rialzo dei rendimenti per mettere fuori gioco gli emittenti più deboli di bond societari.