L’Alta Corte e i giudizi ‘indifferenti’
Posso solo parzialmente condividere le osservazioni espresse da Matteo Caratti nel commento (‘laRegione’ 5 luglio 2018) sulla decisione del Tribunale federale di respingere il ricorso contro la campagna “Love Life” di prevenzione dell’Hiv del 2014. Meglio detto: condividere posso il principio secondo il quale in caso di necessità derivante da un problema di salute pubblica, il fine giustifichi il mezzo. Questo con buona pace di Kant in quanto in medicina prioritaria resta l’ippocratica “via del minor male”. Anche condivido la velata ma presente critica nel suo scritto all’indirizzo dei ricorrenti. Che potevano benissimo biasimare l’Ufficio federale in questione, senza adire le vie legali fino alla nostra Alta Corte. Che tuttavia, ancora una volta, si rivela molto superficiale nelle sue argomentazioni e incapace di un atteggiamento discernitivo; e soprattutto non consapevole del suo ruolo. Infatti dire che se tutti mostrano tutto – esprimo solo il senso del giudizio del Tribunale federale – nei media, a beneficio o maleficio dei minori, perché non lo dovrebbe fare anche lo Stato (l’Ufficio federale della Sanità è lo Stato), significa non essere consapevole del ruolo dello Stato e neppure del proprio quale Alta Corte dello Stato. Infatti, anche se l’effetto di un’azione risulta essere uguale non è possibile nel giudizio prescindere da chi fa l’azione. L’Ufficio federale della Sanità non può essere tranquillamente paragonato, addirittura in questo caso equiparato, ad una qualsiasi agenzia pubblicitaria o alla pubblicità di un centro benessere. Questo mette seriamente in dubbio non solo la capacità di fare delle differenze dei giudici federali ma anche la, da Lei complimentata,“professionalità” dell’ufficio in questione. Altre volte del resto già nel mirino della critica se non ricordo male per poca professionalità (protezione mascherine, sieri per vaccini). Il principio della provocazione per attirare l’attenzione del pubblico va bene solo fin che non lede la dignità della persona, rispetta il sentimento comune ed è caratterizzato da una certa qual intelligenza (la campagna anti Aids 2014 è stata anche da esperti di pubblicità definita sciocca!). Ricordiamo in questo senso anche la campagna 2009 dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali sui diversamente abili, tanto disdicevole che, se non erro, è per finire stata interrotta. Significa che la misura ci vuole anche nella provocazione. Imparare comunque si può: la campagna anti Aids e affini del 2017 è più moderata nelle sue immagini. La frase “nessun rimpianto” (pedagogicamente discutibile e ignorata dai giudici federali) sul manifesto risulta ridimensionata nella sua grandezza. È già qualcosa e forse la critica non è estranea a questo cambiamento.