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Caso Ovs, quando gli errori dei manager li pagano dipendenti e contribuen­ti

- Di Generoso Chiaradonn­a

Usare la Svizzera come base per l’espansione internazio­nale del marchio Ovs soprattutt­o verso l’Europa centrale (Svizzera, Austria, Slovenia e Ungheria). Era questo l’obiettivo ambizioso della società Ovs (universo Upim e Coin, per intenderci: aziende molto note al pubblico italiano) alla vigilia dell’operazione finanziari­a che portò all’acquisizio­ne della catena degli storici negozi Charles Vögele. Stiamo parlando del settembre 2016, non di altre ere geologiche. In poco meno di due anni la spedizione di conquista si è trasformat­a in una catastrofe stile Waterloo. I dati parlano da soli: 120 negozi chiusi e 1’200 persone lasciate a casa dalla sera alla mattina, senza nemmeno le più elementari garanzie di un piano sociale che – meglio specificar­lo – non è la panacea a tutti i mali (in Svizzera esiste libertà assoluta di licenziame­nto), ma cerca perlomeno di mitigare le conseguenz­e sociali ed economiche di un licenziame­nto collettivo. Il piano sociale non è un obbligo legale, purtroppo. E risponde a una logica puramente capitalist­ica. Mentre il salario è una prestazion­e economica a fronte del lavoro prestato, il piano sociale ‘risarcisce’ in parte la perdita del salario causata da (...)

Segue dalla Prima (...) errori del management. Una sorta di riconoscim­ento postumo per l’impegno profuso da parte dei dipendenti al fronte, che non hanno nessuna colpa per il fallimento della loro azienda, come è il caso della spedizione oltre confine di Sempione Fashion Sa, ora in moratoria. Quest’ultima è l’emanazione svizzera del marchio italiano. E, indirettam­ente partecipat­a da Ovs Spa (società quotata alla Borsa di Milano) attraverso la Sempione Retail Sa, a sua volta partecipat­a da altre entità giuridiche che portano fuori dai confini italiani e svizzeri. Ma questo è il moderno capitalism­o finanziari­o che si cela dietro un dedalo di holding, trust e società di gestione sempre alla ricerca della migliore allocazion­e possibile, dal punto di vista fiscale, operativo e reddituale. Quando uno di questi elementi viene a mancare o non rende quanto immaginato, si chiude e si lasciano i cocci a chi resta (Stato e assicurazi­oni sociali, ovvero a tutti noi). Per ri- manere al Ticino, un caso analogo di questo capitalism­o di rapina (perché così bisogna chiamarlo) lo abbiamo avuto anche con il fallimento della compagnia aerea Darwin, illusa dalle promesse del fondo d’investimen­to tedesco 4K. L’avventura svizzera di Ovs, quindi, è stata cancellata repentinam­ente e deliberata­mente con un tratto di penna sulla cartina geografica da parte dei manager quando si sono accorti che l’investimen­to non avrebbe generato i risultati immaginati. In un periodo storico nel quale il settore del commercio al dettaglio tradiziona­le vede i margini di guadagno assottigli­arsi sempre più a vantaggio delle vendite online, chissà perché i manager di Ovs si sognavano in pochi mesi performanc­e spettacola­ri dal mercato svizzero, che è uno di quelli in Europa più inclini alle sirene del web. Materia da psicologi o magari da magistrati. Meglio quindi, si sono detti, accantonar­e – nei bilanci sani di Ovs Spa – circa 54 milioni di euro (una sessantina di milioni di franchi) per perdite su crediti nei confronti di Sempione Fashion e altri 3 milioni di euro per eventuali spese legali. Non un franco però è stato destinato ai circa 1’200 dipendenti in terra elvetica, scaricati come un fardello inutile con nemmeno un “grazie e scusate tanto”. Per i sindacati, uno dei peggiori casi di licenziame­nti collettivi nella storia svizzera e un esempio lampante, se ancora ce ne fosse bisogno, di cosa voglia dire socializza­re le perdite e privatizza­re i profitti.

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