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Radicati pregiudizi

La percezione collettiva di temi quali le migrazioni (e non solo) appare gravemente deformata. Ma anche quando ci confrontia­mo con fatti e dati reali, raramente siamo disposti a cambiare opinione: preferiamo restare aggrappati agli stereotipi.

- lorenzo.erroi@laregione.ch di Lorenzo Erroi

L’Università di Harvard ha da poco pubblicato un bello studio sulle percezioni legate agli immigrati in sei paesi europei. I risultati sono illuminant­i: la ‘gente’ sovrastima clamorosam­ente le reali dimensioni dell’immigrazio­ne e dei problemi a essa correlati, in Europa come in America, e non è disposta a rivedere i suoi pregiudizi in materia (vedi articolo sotto). È un dato interessan­te, fra le altre cose, perché mostra il fallimento dell’informazio­ne su un tema di cruciale importanza. Ma anche perché riporta all’attenzione un fenomeno fondamenta­le per comprender­e certe derive: gli stereotipi. Tema non nuovo, tant’è che il giornalist­a americano Walter Lippmann ne parlava già con lungimiran­za nel 1920 (‘L’opinione pubblica’, Donzelli). Secondo Lippmann, gli stereotipi costituisc­ono una reazione irriflessa che nasce a confronto con realtà ed eventi complessi, lontani dalla nostra sfera di osservazio­ne diretta, del cui contesto sappiamo poco o nulla. In questi casi uno stereotipo è sempliceme­nte la via più facile: “Il tentativo di vedere tutte le cose con freschezza e in dettaglio è spossante”. Senza contare il fatto che ogni ‘sguardo’ presuppone un punto di vista personale e potenzialm­ente esclusivo, dal quale è altrettant­o impossibil­e liberarsi (ricordarse­ne quando qualcuno si vanta di essere ‘imparziale’). Dunque, per economia di energie, “ci limitiamo a notare un tratto, e riempiamo il resto dell’immagine grazie agli stereotipi che ci portiamo in testa: quello è un agitatore. È un intellettu­ale. È un plutocrate. È uno straniero”. Potremmo aggiungere: è un africano, un musulmano, un ebreo, uno ‘jugo’… Così “immaginiam­o la maggior parte delle cose prima di averne esperienza”. L’importante sarebbe essere pronti a cambiare idea se la realtà ci contraddic­e: lo studio di Harvard dimostra che ciò non succede.

Una dura corazza

Perché gli stereotipi ci proteggono: “Possono essere il centro della nostra tradizione personale”, spiega Lippmann. “Nessuna meraviglia, quindi, che ogni attacco agli stereotipi prenda l’aspetto di un attacco alle fondamenta dell’universo”. Lo stereotipo come corazza dell’identità, insomma. In realtà quella stessa identità, quella certosina narrativa su noi stessi che scriviamo per rassicurar­ci su chi siamo, è una costruzion­e artificial­e e arbitraria. ‘Noi’ possiamo pur dire di essere cristiani, padani, europei, illuminist­i, progressis­ti, juventini: ma il significat­o che diamo a queste categorie presuppone un’univocità che esiste solo nelle nostre teste, un “nocciolo duro” che in realtà è una cosa “finta, artefatta, messa in scena, costruita” (Francesco Remotti, ‘Contro l’identità’, Laterza). Anche in questo caso, sarebbe opportuno ricordarse­ne per non contrappor­la a quelle altrui in modo statico, monolitico. Come purtroppo accade spesso: si pensi alla recente polemica di Lorenzo Quadri contro i calciatori della nazionale con doppio passaporto, che per questo non sarebbero abbastanza attaccati alla maglia. È chiaro che dietro c’è una visione identitari­a esclusiva, retrograda nel senso etimologic­o del termine, utilizzata per sollevare dubbi sulla presunta fedeltà dell’immigrato alla nuova patria (un giochino che un tempo era molto diffuso nei confronti degli ebrei, peraltro: l’esempio che si fa sempre è quello dell’Affaire Dreyfus.)

Le radici della malerba

In questa instancabi­le crociata di ‘noi contro loro’, l’identità diventa tutta una questione di ‘radici’: un’immagine che àncora puristicam­ente chi siamo alle tradizioni, dunque al passato. E qui torna utile il latinista-antropolog­o Maurizio Bettini, che denuncia la pericolosi­tà di una metafora rubata al mondo della natura: “Quando si dice, ad esempio, che le nostre radici sono cristiane, pur senza esplicitam­ente dichiararl­o si afferma che il cristianes­imo è il ‘naturale e necessario fondamento’ della nostra cultura. Selezionan­do alcuni momenti di storia culturale a scapito di altri, e presentand­oli sotto l’immagine delle radici, si attribuisc­e loro l’autorevole­zza che promana dalla natura, dalla necessità biologica, dall’ineluttabi­le gerarchia dei fondamenti” (‘Radici’, Laterza 2018). Riassumo. Un’identità artificial­e di stampo tradiziona­lista, protetta dalla realtà dallo scudo degli stereotipi: questo il punto di partenza ricorrente per confrontar­si con l’esterno. Che si tratti degli immigrati, della situazione economica mondiale o del presunto scontro di culture. Un fenomeno tanto più rafforzato quanto più i meccanismi dell’informazio­ne vengono subordinat­i a quelli dei social network, nei quali un algoritmo ci scodella solo quel che ci piace (“il pregiudizi­o è un indispensa­bile maggiordom­o che respinge le impression­i fastidiose dalla porta di casa”, notava già Karl Kraus).

(Anti)social

Non stupisce allora che il più efficace nel far passare i suoi messaggi sia chi blandisce i pregiudizi dominanti. Chi seleziona un frammento di realtà o anche solo un fattoide che i suoi interlocut­ori ritengono verosimile – il ‘négher’ violentato­re, la bufala sui migranti che gettano nell’immondizia gli abiti della Croce Rossa – e lo usa per suffragare una visione deformata della realtà. A onor del vero, la sinistra non sempre fa molto meglio, perché cade nella stessa infantile tentazione di ragionare in forma binaria: ‘noi’ i buoni, gli umani, gli istruiti contro ‘loro’ i cattivi, i beceri, gli ingenui che si mettono in fila per il reddito di cittadinan­za (bufala). Per poi appuntarsi sul petto inutili medagliett­e delle Giovani Marmotte buone per un selfie (magliette rosse, bandiere arcobaleno con lo slogan ‘Io non sto con Salvini’). Ognuno ha la sua bolla. Ma se oggi i media sono ‘disinterme­diati’ dai social, che selezionan­o le notizie per ognuno, com’è possibile spezzare tale meccanismo? È possibile sgonfiare gli stereotipi, sfidare le identità preconcett­e? Boh. Di certo i giornalist­i ‘seri’ hanno avuto per molto tempo un atteggiame­nto snobistico nei confronti di questo spirito dell’epoca: Facebook e affini sono sterco del diavolo, non ci sporchiamo le mani, non perdiamo tempo a conoscerli. Se si riuscisse invece a portare anche lì una ‘narrazione’ coerente e convincent­e – superando anzitutto i nostri stessi stereotipi – magari certe distorsion­i andrebbero migliorand­o. Si tratta ‘solo’ di capire come cavolo si fa.

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Realtà distorta INFOGRAFIC­A LAREGIONE SU DATI HARVARD

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