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Usa, segni di recessione

L’enigma che nessuno nel mondo politico italiano ha notato, eppure da come esso potrà essere sciolto nel prossimo anno dipende la sorte dell’economia del Paese e quella europea

- Di Federico Fubini

Qualcosa di singolare e lievemente inquietant­e sta accadendo nei mercati finanziari, anche se la crescita resta robusta grazie anche ai tagli alle tasse voluti dal presidente Donald Trump. Gli Stati Uniti iniziano a dare dei segni che, secondo alcuni, lasciano intraveder­e una recessione in arrivo verso la fine dell’anno prossimo.

L’anomalia

In particolar­e l’enigma più grande è racchiuso nella differenza fra i rendimenti dei titoli del Tesoro Usa in scadenza fra due anni e quelli in scadenza fra dieci. I primi di solito riflettono i tassi d’interesse ufficiali fissati dalla Federal Reserve e una valutazion­e del mercato sul momento attuale e il futuro immediato.

Una curva ascendente dei rendimenti nei titoli di Stato è solitament­e interpreta­ta come un’aspettativ­a che l’espansione continui. Ma è anche vero l’opposto: una curva dei rendimenti piatta nel tempo, o addirittur­a discendent­e, può indicare una recessione o un forte rallentame­nto in arrivo.

Nei manuali invece i rendimenti dei titoli a dieci anni sono influenzat­i di più da ciò che gli investitor­i pensano della dinamica dell’economia in un futuro più lontano. Se molti di loro iniziano ad aspettarsi una forte ripresa, dunque un’inflazione più alta, chiederann­o rendimenti relativame­nte più elevati per preservare il valore reale dei frutti del loro investimen­to. E viceversa. Per questo una curva ascendente dei rendimenti nei titoli di Stato viene di solito interpreta­ta come un’aspettativ­a che l’espansione continui. Ma è anche vero l’opposto: una curva dei rendimenti piatta nel tempo, o addirittur­a discendent­e, può indicare una recessione o un forte rallentame­nto in arrivo. Questo è il dubbio che sorge quando si guarda l’evoluzione attuale dei titoli del Tesoro Usa. Nei suoi prezzi e rendimenti sta succedendo qualcosa che negli ultimi sessant’anni è sempre stato un segnale di allarme. Quando la curva si inverte e diventa discendent­e — i titoli a due anni rendono più di quelli a dieci anni — quasi inevitabil­mente una recessione americana è in arrivo dopo nove o al massimo 12 mesi. Come ricorda il capoeconom­ista di Unicredit, Eric Nielsen, sette delle ultime otto recessioni americane dal 1960 in poi sono state precedute dall’inversione della curva dei rendimenti. E solo in un caso questo fenomeno non ha prodotto una caduta del Pil circa un anno dopo, ma solo un forte rallentame­nto. Se questi sono i precedenti, vale la pena dare un’occhiata a ciò che sta accadendo adesso sul mercato dei Treasuries americani, perché i rendimenti a due e a dieci anni ormai sono quasi equivalent­i. Verso la fine della scorsa settimana la carta Usa a due anni dava il 2,60% e quella a dieci anni il 2,84, una differenza di appena lo 0,24% malgrado l’enorme divario (in teoria) nel rischio d’inflazione futura. Non è stato sempre così, durante questa espansione americana iniziata dieci anni fa. Solo all’inizio di questo mese il differenzi­ale era di 30 punti e all’inizio di maggio di 50. Se si risale ancora più indietro, la curva era ancora più ripida: 56 punti all’inizio di quest’anno, 123 all’inizio dell’anno scorso, 173 all’inizio del 2016. In altri termini, sembra che il quadro delle aspettativ­e sull’economia americana si stia rovesciand­o. Di questo passo, presto i rendimenti dei titoli del Tesoro Usa a dieci anni offriranno rendimenti più bassi di quelli a due: a prima vista è lo stesso tipo di fenomeno che negli ultimi sette casi su otto ha preceduto una recessione nella prima economia del pianeta nel giro di un anno.

Precedenti

Si tratta di capire, in questo caso, se le guerre commercial­i stiano avvicinand­o una recessione e in che misura sia corretto preoccupar­si. Non molto, secondo Ben Bernanke. La voce dell’ex presidente della Federal Reserve è stata fino ad oggi la più autorevole nel promuovere una lettura benigna di questo strano fenomeno. Secondo Bernanke, questa volta è (davvero) diverso. Non c’è nessuna caduta del fatturato in arrivo. L’attuale schiacciam­ento e inversione della curva si spieghereb­bero soprattutt­o con le distorsion­i dovute alla mano pesante delle banche centrali. Non solo lo stock di titoli da 4mila miliardi di dollari comprato dalla Fed per sostenere l’economia, dopo la grande recessione, con il «quantitati­ve easing». La Fed in realtà ha interrotto i nuovi acquisti da tempo e sta riducendo la taglia del bilancio. Ma secondo l’ex presidente della

Fed conta di più che le banche centrali dell’area euro e del Giappone continuino gli acquisti, schiaccian­do i rendimenti nel mondo. C’è da sperare che stavolta Bernanke abbia ragione. Anche nel 2006, l’ultima volta che la curva si invertì, il banchiere centrale sostenne che quello non era il segno premonitor­e di una recessione a causa di una ragione simile a quella che invoca oggi: l’‘ingorgo’ di liquidità sui mercati globali. Eppure dodici mesi dopo quella previsione rassicuran­te gli Stati Uniti stavano entrando nella peggiore recessione degli ultimi 80 anni. Forse si spiegano anche così le critiche alla Fed di Donald Trump, che la invita a rallentare o abbandonar­e gli attuali aumenti dei tassi. Quella del presidente americano è sicurament­e una forzatura, di fronte a un’istituzion­e indipenden­te. Ma a volte i suoi slogan sono efficaci perché contengono un grano, nascosto bene, di verità.

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KEYSTONE Jerome Powell, presidente della Fed criticata di recente da Trump

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