Il nero e la luce
Fino al 25 novembre la Fondation Gianadda di Martigny ospita una retrospettiva di Pierre Soulages
In collaborazione con il Centre Pompidou di Parigi, per onorare il suo quarantesimo anniversario di vita e i suoi numerosissimi visitatori, la Fondazione Gianadda di Martigny allestisce un’importante retrospettiva su uno dei maggiori pittori viventi: Pierre Soulages, nato quasi cento anni fa, nel 1919, a Rodez, nel Sud della Francia, oggi sede di un gran bel museo che porta il suo nome e accoglie il meglio delle sue opere da lui stesso collezionate. I pezzi in mostra non sono tantissimi, una quarantina, ma insieme costituiscono il duplice pregio della rassegna: documentano anzitutto le tappe evolutive del suo linguaggio, dal 1948 al 2017; sono inoltre di straordinaria qualità e di grande (anche molto grande) formato provenendo quasi tutti dal Centre Pompidou o dal Museo Soulages di Rodez, si tratta quindi di una selezione sceltissima filtrata da importanti istituzioni museali. E l’impatto sul visitatore non manca di farsi sentire.
Un lungo dialogo
Come si sa l’opera di Soulages nel suo complesso è un unico lungo dialogo a tre: il gesto del pittore, la potenza del segno che immette moto ed energia nel dipinto; la strutturazione dell’opera, l’architettura che ne deriva; e l’essenzialità del colore che, nel caso di Soulages, si riduce sostanzialmente al contrappunto tra il bianco originario della tela e il nero che scende a coprirlo lasciandone appena, qua e là, tracce residuali. È una strada che ha imboccato nel 1948 e che poi non ha più abbandonato, scavalcando non solo qualunque superstite richiamo alla figurazione, ma servendosi anche di materiali assolutamente non appartenenti alla tradizione alta della pittura come documentato fin dalle prime opere in mostra: dense strisce di catrame su ampi vetri scheggiati, inchiostri fatti con il mallo delle noce, grandi strutture astratte connotate da un forte senso plastico e architettonico. Sollecitato a rievocare le possibili origini della sua pittura, Soulages ricorda in particolare la visita fatta a 13 anni alla celebre abbazia romanica di Conques (molti anni dopo ne avrebbe disegnato anche le vetrate) la cui imponenza faceva tutt’uno con la solida e potente organizzazione spaziale. Quando deciderà di diventare pittore, sarà proprio questo bisogno di ritrovare il senso di uno spazio plastico e architetturale ad animare in profondo la sua pittura. Altra cosa che ricorda sono le sue prime pitture fatte poco più che quindicenne: si sentiva affascinato dagli scheletri grigio-nerastri degli alberi contro il cielo grigio dell’inverno. Può essere che qui dentro ci sia davvero, in nuce, la fonte germinativa della sua pittura. Certo è che quando, finita la guerra, si dedica davvero alla pittura, a partire dal 1948 Soulages non solo si stacca perentoriamente da qualsiasi richiamo del mondo esteriore e dal tonalismo atmosferico, ma si tuffa ad esplorare gli effetti pittorici dei supporti, dei materiali, delle tecniche, dei diversi strumenti utilizzati (le grandi pennellesse, i pettini eccetera) e punta diritto verso l’astrazione dentro il binomio bianco-nero. Quella sua non è però l’astrazione geometrica di chi accosta belle superfici “a piatto”: egli traccia grandi gesti su ampi formati, carichi di umori e spessori, di densità e rarefazioni, di moti e di stasi, di sovrapposizioni e vuoti residuali… in altre parole: di una corporeità che – per la sua stessa evidenza – interroga e coinvolge l’osservatore.
La potenza del segno che nasce dal contrappunto tra il bianco originario della tela e il nero che scende a coprirlo
Il colore più vero
Fin qui la sua prima fase astratta durata un trentennio; segue la seconda parte della rassegna. Nel 1979 il passaggio a quello che lui definirà “l’oltrenero” (l’outrenoir), una luce che emerge dal profondo del nero stesso per cui non ha più bisogno del contrappunto dialettico con il bianco della tela. Lo scopre una mattina dopo una notte passata a lavorare intensamente su una tela che gli sembrava fallita: in realtà le paste del nero lavorate a onde con il pettine o striate a mano, non solo dinamizzavano l’opera, ma riflettevano la luce, in relazione anche allo spostamento nello spazio dell’osservatore. È la luce che emerge dal buio, è il nero che si trasfigura nella luce, è la vita che esce dalle tenebre. Dice Soulages: “Il nero è forse il colore più vero delle nostre origini: se un giorno abbiamo visto la luce, vuol dire che prima c’era solo il nero.” Aggiunge poi: “Ciò che importa prima di ogni altra cosa è la realtà della tela dipinta: il colore, la forma, la materia da cui nascono la luce, lo spazio… e il sogno che portano dentro…”.