Marchionne, non tutto è positivo
I successi di Sergio Marchionne non cancellano però gli errori storici della famiglia Agnelli
In questi giorni con Sergio Marchionne in fin di vita, sulla stampa si sono sprecati i commenti e gli elogi per un manager e un uomo certamente di valore che ha risollevato le sorti aziendali di un gruppo industriale che nel bene e nel male ha fatto la storia d’Italia. “Quel che va bene alla Fiat, va bene all’Italia” era una frase attribuita all’avvocato Gianni Agnelli e che ha segnato – condizionandola in male – buona parte della politica industriale italiana, aggrappata più alle logiche delle grandi famiglie che a una coerente strategia di modernizzazione economica e sociale dell’intero Paese.
Quando gli interessi della Fiat erano sovrapponibili a quelli dell’Italia. Una tara che ha impedito il rinnovamento dell’industria nazionale.
Segue dalla Prima Insomma, con la scusa che l’industria dell’auto (con tutto l’indotto) in Italia era la Fiat, mal si sopportava – in casa Agnelli, ben intenso – l’arrivo nel proprio orticello (e poi si critica il protezionismo odierno di Donald Trump) di altri concorrenti. Successe così con l’Alfa Romeo, un marchio storico dell’automobilismo italiano e non solo, finita nel carrozzone pubblico dell’Iri (Istituto per la riconversione industriale) e ceduta (eravamo nel 1986) all’allora Fiat Auto per non farla finire nelle mani della statunitense Ford. Sarebbe stato un atto di lesa maestà – nei confronti degli Agnelli – se in un settore dominato dalla Fiat ci fosse stato un concorrente straniero. La stessa cosa era successa qualche decennio prima con Lancia e poi con Autobianchi, brand incorporati dal monopolista torinese e fatti scomparire di soppiatto. Una strategia che è andata bene alla Fiat e alla famiglia Agnelli fino alla metà degli anni 90, quando a Torino ci si rese conto che per competere sul mercato globale bisognava avere prodotti e strutture adeguati al nuovo mondo. È in quella situazione che si cercò un partner straniero individuato nella General Motors. In pratica si voleva rifilare il mammut Fiat agli americani che mangiata la foglia dissero “no, grazie”, preferendo pagare una penale miliardaria per rinunciare all’opzione di acquisto. È in quei frangenti – siamo agli inizi del 2000 – che maturò la scelta di affidare a Sergio Marchionne un’operazione apparentemente impossibile: risanare un’azienda letteralmente decotta e che per la famiglia Agnelli (orfana di Gianni e Umberto) era diventata di fatto un peso, tanto i dividendi arrivavano da altre attività quasi tutte finanziarie. Sfida vinta da Marchionne grazie all’acquisizione (con un prestito del governo Usa) nel 2009 della statunitense Chrysler. Quel prestito federale costituì la base di rilancio di una multinazionale che di italiano ha ora ben poco. Il gruppo Fca (Fiat Chrysler Automobiles) ha infatti quartier generale a Detroit, sede fiscale a Londra e sede legale in Olanda. L’Italia, tanto centrale negli anni del mercato chiuso e ben protetto dalla politica, è diventata marginale con pochi (quattro) siti produttivi e una situazione finanziaria mai veramente risanata, tanto che dal 2012 a oggi Fca Italy, quella che una volta era Fiat Auto e che raggruppa le attività industriali in Europa, Asia e Sudamerica, ha accumulato perdite per 6 miliardi di euro. I vizi della vecchia Fiat qui non sono mai morti. Molti stabilimenti lavorano in perdita e marchi storici, pur con successi nelle vendite, non producono margini positivi. Senza contare che nei siti produttivi italiani di Mirafiori, Melfi e Pomigliano i contratti di solidarietà (di fatto tagli salariali, ndr) e la cassa integrazione (lavoro ridotto) sono una presenza costante. Questo per dire che con i soli modelli della Panda e della Cinquecento (per rimanere ai modelli di fascia medio-bassa) non si possono certamente generare utili se non a costo di tirare il collo ai dipendenti. Il progetto Fabbrica Italia di Marchionne (investimenti e futuri modelli) è rimasto solo sulla carta. I concorrenti diretti di Fca in quella fascia di mercato (Volkswagen e Toyota) nel frattempo hanno innovato e sfornato modelli a getto continuo conquistando sempre più pubblico. Volkswagen ha addirittura superato uno scandalo (il ‘Dieselgate’) potenzialmente letale puntando ora su motori elettrici e dicendo addio al gasolio. Toyota, da parte sua, è leader nella tecnologia ibrida (elettrico-benzina). Stiamo parlando di gruppi che non hanno lesinato in investimenti, non solo in patria. Gli utili per Fca invece arrivano per la quasi totalità dal ramo statunitense (Jeep in particolare). Le relazioni industriali si fanno a Washington e l’Italia, anche politicamente, conta sempre meno. Anche questo fa parte dei quattordici anni nel gruppo Fiat del manager Marchionne. All’uomo va il rispetto per una condizione personale che non si augura a nessuno.