laRegione

Il cinema e l’uomo

Carlo Chatrian, direttore del Locarno Festival

- di Ivo Silvestro

Domani si aprirà l’edizione numero 71 del Locarno Festival. Tra il debutto di una serie tv in Piazza Grande e film di 14 ore, sarà un’edizione dedicata all’umanesimo. Perché il cinema è l’arte che più di tutte vuole raccontare l’uomo nel suo essere cosa complicata e preziosa, ci spiega Carlo Chatrian alla vigilia della sua ultima edizione da direttore.

Locarno71, un’edizione che ha detto di voler dedicare all’umanesimo. Che cosa intende di preciso?

Mi rendo conto che ‘umanesimo’ è una parola un po’ astratta e non veicola direttamen­te qualcosa legato al programma. Ma la riflession­e è semplice – e al tempo stesso filosofica e profonda. È semplice perché il cinema, forse più di altre arti, si è dato compito di raccontare l’uomo, ha messo l’essere umano al centro della sua inquadratu­ra. In questo senso può apparire quasi scontato, visto che tutti, o quasi tutti, i film hanno un essere umano al centro. In un senso più profondo, quello che volevo dire è che mi sembra che oggi la nostra attenzione non vada tanto all’uomo, alla persona che ci sta di fronte o a noi stessi, ma piuttosto è distolta da altre preoccupaz­ioni. Come possono essere questi telefoni che ci portiamo sempre dietro e che riproducon­o, sì, delle immagini dell’uomo, ma in queste immagini non riconoscia­mo più l’uomo con tutte le sue caratteris­tiche. Il cinema invece vuole raccontare l’uomo andando oltre le sue immagini. Penso che il cinema abbia questo: ci ricorda che l’uomo è una cosa complicata e preziosa.

Nel programma, come vediamo questo umanesimo?

Questo umanesimo viene declinato in vari modi. Il primo è attraverso il divertimen­to: l’uomo, tra tutti gli animali, è l’unico dotato di riso. Credo sia l’anno in cui, in Piazza Grande, ci sono più commedie: iniziamo con le comiche (di Leo McCarey con Stanlio e Ollio, ndr) e un film francese (‘Les Beaux Esprits’ di Vianney Lebasque, ndr) che è una commedia irriverent­e; chiudiamo con un altro film francese, molto diverso, con un grande interprete, Jean Dujardin, che è una commedia… in mezzo ci sono film più “impegnati” ma che non disdegnano accenti comici e surreali. Penso a Spike Lee, al film con Diego Abatantuon­o… Secondo livello, forse più profondo, che fa da controcamp­o al primo, è ricordare i 70 anni della Dichiarazi­one universale dei diritti umani, uno dei manifesti più evidenti del nuovo umanesimo. Una dichiarazi­one che è anche molto bella da leggere e che, nel suo nucleo, dice qualcosa di semplice che però vale la pena ricordare di continuo. E il pensiero va a quelle situazione e a quei Paesi dove questi diritti vengono negati e da questo punto di vista tanti film calcano questo territorio del presente.

Però il cinema ha anche avuto grandi narra- zioni in cui, talvolta, principi e ideali hanno schiacciat­o l’uomo…

Sì, ma quest’anno il programma ha meno “affreschi storici e sociali” e anche quando il film è rivolto al passato, si concentra su delle persone. Penso a ‘Menocchio’, il film italiano in concorso, che è sì un affresco del Cinquecent­o e dell’età della Controrifo­rma, ma prima di tutto è il racconto della vita di una persona. Situazione simile per il già citato film di Spike Lee, ambientato negli anni Settanta e che segue la vicenda di un individuo attraverso la quale, certo, si può trarre una lezione più generale.

Questo per l’umanesimo ‘sullo schermo.’ C’è anche un umanesimo ‘davanti allo schermo’? Penso al prendere una serie tv, pensata per la visione privata, per portarla di fronte a migliaia di spettatori…

Molte volte mi è stato chiesto perché non includere le serie tv nel concorso… ho sempre detto che il festival non ha un pregiudizi­o verso le serie televisive. Sempliceme­nte, bisogna trovare l’angolatura giusta, l’occasione giusta. Quest’anno ci è capitata la possibilit­à di accogliere – prima della sua diffusione – una serie tv e si tratta di una serie un po’ particolar­e, di soli quattro episodi e molto autoriale. A noi è piaciuta molto: irriverent­e, personaggi che parlano una lingua sgrammatic­ata e talvolta si muovono come delle macchiette, una sorta di comico quasi grottesco che parla dell’incoerenza del mondo di oggi. Abbiamo quindi proposto a Bruno Dumont di venire a Locarno per ricevere il premio più prestigios­o per i registi, il Pardo d’onore – perché ci piace il suo lavoro, la sua riflession­e, i suoi film – portando questa sua serie televisiva che sarà proposta in Piazza Grande, sabato sera. E, un po’ una cosa unica, con un seguito il giorno dopo, perché in piazza mostreremo i primi due episodi, gli ultimi due domenica pomeriggio. Questo per dire che non ci sono barriere.

Non ci sono barriere, però una differenza di linguaggio, tra un prodotto pensato per la visione solitaria della tv, o ormai dello smartphone, e uno per il cinema, c’è.

È vero, anche se altri festival sono nati apposta per far vedere a un grande pubblico delle serie televisive… Non è una novità assoluta, ma certo la fruizione televisiva ha delle modalità e la visione cinematogr­afica ne ha delle altre però penso che da questo punto di vista certe serie tv – non tutte – si prestano molto bene a una visione collettiva. L’unica discrimina­nte è la modalità, perché per le serie lunghe è il singolo a decidere come spezzettar­e la visione, invece al cinema lo devi determinar­e tu a priori. Tra l’altro è un problema con cui ci siamo confrontat­i per un film del Concorso (‘La Flor’ di Mariano Llinás) la cui durata supera la capacità di visione… e questo mostra come noi e altri festival rispondiam­o a un’arte che evolve e cambia.

In mezzo a questi cambiament­i, quali sono gli equilibri da mantenere nell’organizzaz­ione del programma?

Domanda complessa… Per aiutarmi uso spesso l’immagine di una mappa sulla quale ci sono continenti e piccoli stati, grandi città e paesini e a seconda di chi guarda la mappa, l’occhio potrà cadere sul grande stato o sul piccolo paese. La mia preoccupaz­ione, quando metto insieme le tessere che compongono il mosaico del festival, è cercare di rispettare questa varietà che troviamo nelle mappe. Sapere che da una parte ci sarà una grande fetta di pubblico che – per uscire dalla metafora – guarderà al blockbuste­r di Piazza Grande o all’ospite di prestigio, dall’altra parte c’è un pubblico che preferisce le strade secondarie, per cui è importante che ci siano film che possano riservare delle sorprese. Cercando di combinare dei fili di programmaz­ione che permettano a uno spettatore di vedere sia il film noto, sia la sorpresa, di far fare agli spettatori un viaggio nel mondo, ascoltare voci diverse… La programmaz­ione non è solo un insieme di titoli, ma anche come questi titoli si dispongono giorno per giorno, costruendo alternativ­e in base alla provenienz­a e alla storia dei film.

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TI-PRESS/ALESSANDRO CRINARI Il festival risponde a un’arte che evolve e cambia

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