Le sfide di Mike Manley
Alla fine: meglio prima che dopo. Meglio ribassare adesso, subito, pur se la cinica regia del caso ti costringe ad annunciarlo il giorno stesso della morte di Sergio Marchionne, che fingere di poter affrontare senza danni non la scomparsa del leader carismatico, visionario, geniale: Mike Manley ha sulle spalle anche il peso del confronto con chi è già leggenda, sì, ma a non avergli lasciato altra scelta se non il taglio degli obiettivi 2018 è qualcosa di terribilmente meno impalpabile, molto più immediato e, soprattutto, comune a ogni costruttore europeo e americano. Mercoledì 25 luglio, mentre in Italia non c’era chi non fosse concentrato sulla scomparsa di un uomo cui ha reso omaggio il mondo, negli Usa General Motors e Ford si preparavano a comunicare l’identica decisione che a Fiat Chrysler Automobiles è costata, quel giorno, il 15,5% in Borsa. Revisione all’ingiù dei target in precedenza fissati per l’esercizio. Come aveva peraltro già fatto, in Europa, Daimler. Era il 21 giugno e il gruppo tedesco era stato il primo dei colossi a lanciare un profit warning. Il fatto è che lo scenario dell’auto è cambiato in pochi mesi. E soltanto in peggio. Qualcosa era stato messo in preventivo: che il mercato globale fosse vicino a superare i suoi picchi di massima crescita lo si diceva da un sacco di tempo (a questo punto siamo già probabilmente oltre). Che Donald Trump potesse passare dalle vaghe minacce sui dazi alla guerra vera contro l’Europa, non solo contro la
Cina, era invece un timore concreto, sì: niente però rispetto ai nuvoloni neri che poi hanno preso forma e da settimane, ormai, scaricano grandine.
Barriere d’acciaio
La prima causa dietro il ridimensionamento dei target di Fca, come di Gm e Ford, sta lì: nelle barriere alzate dalla Casa Bianca contro l’import di acciaio e alluminio dall’Europa. Sono le due principali materie prime, per l’auto. Da giugno costano, a chiunque costruisca macchine in America, l’una il 25% e l’altra il 10% in più. L’effetto finale l’ha calcolato Nomura: sull’altare dei dazi le ex Big Three bruceranno gran parte dei maggiori utili ‘regalati’ dallo stesso Trump con il taglio delle tasse. Se poi Mr. President non si fermasse e, nonostante la tregua di questi giorni, sul serio prendesse di mira anche l’import di auto e componenti, non è vero che proteggerebbe la produzione e il lavoro Usa. Gli europei non starebbero fermi. E una guerra totale avrebbe un unico risultato: prezzi più alti per chi compra macchine (negli States 4’400 dollari in più per un’auto media, secondo il Center for Automotive Research), probabile crisi per chi le costruisce. Di qua e di là dall’Atlantico. Ecco. Il primo quadro dello scenario che Manley dovrà affrontare è questo. Spiega perché, nel trimestre in cui si è finalmente liberata dei debiti, Fca abbia visto scendere gli utili (rispetto a un anno fa) e dovuto ritoccare le stime per fine esercizio (profitti netti comunque confermati a 5 miliardi, e «nessun impatto» è previsto sugli obiettivi del piano al 2022). Non lo spiega da solo, però. L’altra ragione del «trimestre duro, difficile» — lo aveva preannunciato lo stesso Marchionne, prima del ricovero a Zurigo e delle «impensabili complicazioni» che gli sono costate la vita — è il quadro numero due. Nessuno avrebbe potuto immaginare che la successione sarebbe stata così drammaticamente accelerata, meno ancora che ‘The Big Boss’ non ci sarebbe stato, ad accompagnare l’insediamento del nuovo Ceo. Manley eredita in ogni caso un’azienda sana e per molti aspetti competitiva: la metamorfosi dai veicoli mass market alla fascia premium è quasi completata, e dimostrata dal continuo rialzo dei parametri di redditività; le Borse la valutano oltre dieci volte quel che valeva quando non c’era Chrysler ma la Ferrari e Cnh erano direttamente in portafoglio; i debiti sono spariti e in cassa c’è ora un attivo di mezzo miliardo. Due obiettivi, però, erano (sono) ancora ‘incompiuti’: il rilancio Alfa Romeo e la conquista — con Jeep, Maserati, la stessa Alfa — di una quota almeno decente in Cina. Sulla sfida del Biscione Manley deve ancora pronunciarsi. Su quella cinese, non poteva essere più chiaro. Lo chiama del resto doppiamente sul ring: è Jeep, il brand che ha guidato in tutti questi anni e che «sarà sempre più il marchio forte del gruppo» (Marchionne, primo giugno, presentazione dei piani al 2022), ad avere la mission di conquistare il Celeste Impero. Può riuscirci e, soprattutto, deve. È lo stesso neo amministratore delegato, però, a riconoscere che se Fca vuole vincere «la sfida maggiore che ci aspetta», ovvero conquistare la Cina a mezzo Jeep, sarà «molto importante il riposizionamento del brand». Pechino è più che mai «una priorità». Non lo sono invece, parrebbe, le alleanze. Come il Marchionne degli ultimi due anni, Manley ripete: «Fca è nelle condizioni di continuare a crescere solida e indipendente». Può essere. Ma il gruppo è in ritardo, per esempio, sull’elettrico. E i nove miliardi di investimenti previsti dal piano industriale per recuperare terreno sono niente, rispetto a quel che stanno mettendo sul tavolo i concorrenti.