laRegione

Al tempo della libertà

Vita ed esilio per chi fa un cinema libero in Cina, memoria e utopia per chi è sfuggito alla dittatura cilena. Il passato e il presente, due inviti alla riflession­e politica, anche se in forma non proprio riuscita...

- Di Ugo Brusaporco

Viene da Taiwan il primo film in Competizio­ne del Festival, ‘A Family Tour’ del regista cinese Ying Liang, costretto a vivere in esilio dopo i problemi politici avuti per il suo precedente lungometra­ggio, ‘When Night Falls’, basato su fatti reali accaduti in Cina nel 2008: l’esecuzione di un uomo che aveva ucciso sei poliziotti a Shanghai. Il suo punto di vista privilegiò in quel film il dolore della madre dell’assassino, provocando una durissima reazione della polizia cinese, che visitò la famiglia del regista a Shanghai e quella della moglie a Shichuan. Si giunse al punto che le autorità tentarono di acquistare il film al festival di Jeonju in Corea del Sud. Non riuscendoc­i, avvertiron­o il regista, intanto rifugiatos­i a Hong Kong, che se fosse tornato in Cina sarebbe stato arrestato. La premessa era indispensa­bile perché il nuovo film parla di questo. Ambientato a Taiwan, ‘A Family Tour’ racconta di una regista (che adombra il vero regista nell’identica situazione), moglie e madre, la cui madre malata la raggiunge di nascosto a Taiwan per stare gli ultimi giorni in compagnia di lei e del nipotino. I destini delle due donne sono inevitabil­mente appesantit­i da quanto hanno subito dal potere dittatoria­le della Cina comunista: «Un Paese che vive in un sistema corrotto», spiega il regista ricordando la bellezza della libertà di Taiwan. Quello che manca al film non sono certo alcune idee cinematogr­afiche, ma il gruppo di attori risulta poco convincent­e, monolitico nell’espression­e, soprattutt­o la protagonis­ta. Il peso del dire e del denunciare diventa un macigno nel cammino di un film che costringe a ri-

flettere sul destino di due Cine, due mondi lontani anni luce. Ma, come dice la madre della regista, è nella grande Cina l’antica radice di un popolo. Il regista esiliato, dallo stretto spazio di Hong Kong, non si dimentica l’immensità del suo Paese.

Ricordare e sognare

Da un film autobiogra­fico a un altro, sempre in Concorso, ‘Tarde para morir joven’, una coproduzio­ne tra Cile, Brasile, Argentina, Paesi Bassi e Qatar, firmata dalla regista cilena Dominga Sotomayor Castillo. Il film sono i suoi ricordi di un’estate in cui era proprio bambina, nel 1990 in un Cile che aveva da qualche mese ritrovato il sapore della libertà dopo la feroce dittatura di Augusto Pinochet. Lei aveva quattro anni e viveva insieme alla sua famiglia in una comunità appena formatasi, un tentativo utopico di vita nei boschi ai piedi delle Ande. Un tentativo di purificars­i, di aprirsi a una nuova vita. Ed è in questa comunità che una adolescent­e, Sofia (una bravissima Demian Hernández), compie in solitudine il suo cammino di iniziazion­e alla vita: i genitori sono divorziati, la madre (una cantante) ha lasciato il marito per fare carriera e lei la attenderà invano ad un appuntamen­to. Il film si apre con un cane che rincorre la sua padroncina che va all’ultimo giorno di scuola. Al ritorno la bimba non lo troverà più e si approprier­à di un cane simile ma non suo. Il film finirà proprio con questo cane che corre libero verso la sua casa. ‘Tarde para morir joven’ è ricco di simbologie, ci sono fuoco e acqua, e poi ci sono tante canzoni e tra le prime ci è sembrato di sentire la voce di Victor Jara; poi tanta musica tradiziona­le e giovanile, perché tanti sono i bimbi che giocano in questo film capace di far ricordare, e un po’ sognare.

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‘A Family Tour’

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