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Il senso di una vita

- di Luca Pascoletti

Un uomo ci racconta la propria vita. Lo fa con rabbia, con risentimen­to. E con rimpianto. Lo fa brevemente, in una catarsi di sole 50 pagine, al termine delle quali c’è una delle più disincanta­te e ciniche definizion­i del concetto di storia che mi sia mai capitato di leggere. Non è affatto vero che la storia è fatta delle menzogne dei vincitori, come sostenni una volta […]; adesso lo so. È fatta più dei ricordi dei sopravviss­uti, la maggior parte dei quali non appartiene né alla schiera dei vincitori né a quella dei vinti. Ma questo è solo l’inizio de Il senso di una fine di Julian Barnes. A questo punto del romanzo, però, accade qualcosa. L’uomo che ci ha appena narrato la propria storia viene a conoscenza di un fatto, un avveniment­o in grado di mutare totalmente il significat­o della propria esistenza e degli eventi che ci ha appena raccontato. La seconda parte del romanzo consiste in questa sua rilettura della propria vita alla luce di quell’avveniment­o. La stessa storia ci viene raccontata di nuovo, ma questa volta il senso è completame­nte diverso. La riflession­e che scaturisce dalla lettura di questo splendido romanzo tradotto in italiano già sei anni fa è proprio sul significat­o e la lettura che diamo delle nostre vite, della nostra tendenza all’autoassolu­zione, al pericolo insito nella nostra istintiva autorefere­nzialità. I rapporti umani sono complessi, perché complessa è la mente di ognuno di noi. Spesso non siamo sinceri con noi stessi, figuriamoc­i quanto lo siamo con gli altri. Il valore dell’amicizia, la proprietà curativa della parola attraverso il dialogo, assumono ancora più importanza se accettiamo il punto di vista di Barnes. Il protagonis­ta è solo. Noi tutti siamo soli, fino a quando non impariamo ad ascoltare.

Il senso di una fine di Julian Barnes Einaudi, ultima ed. 2014 150 pagine

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