Niggeler, cose da numero uno
Dalla Cina all’Elba in un turbinio di emozioni. ‘E sto ancora festeggiando’ dice il ventiseienne, fresco di titolo mondiale.
Dal Lago Tai Hu, nello Jiangsu, al mare dell’Elba. Dove Michele Niggeler sceglie di trascorrere qualche giorno di strameritata vacanza dopo lo straordinario trionfo cinese di una settimana fa. Quando il ventiseienne («ticinese acquisito», come dice lui), in compagnia di Max Heinzer, Benjamin Steffen e dell’astro nascente Lucas Malcotti riesce a scrivere una delle pagine più belle dello sport rossocrociato, mettendosi al collo l’oro a squadre nella spada ai campionati del mondo. «E sto ancora festeggiando» dice, divertito, il ragazzo nato a Bergamo e trapiantato a Milano. Che nell’accesissima finale con la Corea del Sud è a dir poco superlativo, e porta letteralmente la Svizzera di peso, ereditando il testimone sul 5-4 per poi ricederlo ai compagni con il punteggio sul 19-13. «Mi vengono i brividi, se ci ripenso – dice lo spadista della Lugano Scherma –. La gioia era talmente grande che sul momento credo non avessimo neppure realizzato. Era un mix tra felicità allo stato puro e tensione che spariva, portando con sé le incertezze accumulate in un’annata a squadre non proprio brillante. Del resto, eravamo arrivati in Asia con la paura di non riuscire a confermare l’argento dell’anno prima, ripensando alla rocambolesca e amara finale con la Francia, in cui prima di arrenderci arrivammo pure ad avere sette stoccate di vantaggio». Senza dimenticare, poi, com’era finita agli Europei in Serbia nel mese di giugno. «Eh sì, perché il quarto posto è il più duro di tutti da digerire: infatti sai di essere quasi a medaglia, e poi finisce che perdi le due sfide più importanti di tutte. Tuttavia, a Novi Sad avevamo la consapevolezza di partire penalizzati, visti i problemi fisici accusati da Steffen, che praticamente abbiamo dovuto impiegare col contagocce. Lui che per noi è una specie di capitano». La Cina ha però rimesso le cose a posto. In una finale dall’epilogo mozzafiato: «La verità? A un certo punto non guardavo neanche più cosa stessero facendo in pedana (ride, ndr). Fissavo semplicemente l’apparecchio pregando che s’accendesse la luce: che fosse doppio o che fosse solo tuo, bastava che il punto arrivasse. Ed è stata durissima, siccome all’ultimo assalto Steffen era avanti di un
punto, mentre dall’altra parte c’era il campione olimpico in carica. Improvvisamente, però, t’accorgi che il tuo compagno continua a ‘toccare’ e il cronometro non smette di correre. E non ci stai più dentro: una dopo l’altra, hai battuto le tre nazioni più forti
e sei campione del mondo. Ancora faccio fatica a crederci». In una serata che tu, oltretutto, hai vissuto da assoluto protagonista. «Ed è una gioia immensa, sapere di aver indossato i panni del trascinatore in una sfida del genere. Io che, invece, spesso incontro difficoltà
nel gestire la tensione. In particolare, però, sono contento di come ho saputo ‘tirare’, dopo una stagione che, almeno nell’individuale, forse è stata la peggiore della mia carriera. Un periodo davvero negativo non solo sul piano agonistico, ma pure su quello
mentale. Tuttavia ho saputo riemergere, lavorando in modo un po’ diverso negli ultimi mesi, cioè allenandomi cercando di divertirmi, anziché pensare a tutto il resto. Per chiudere in bellezza. Pur se allora non pensavo che potesse finire tanto bene».