laRegione

Foa, Pericle, Salvini. E Silvio.

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

“Menomale che Silvio c’è” scriveva nel 2002 il cantautore Andrea Vantini in onore del suo amico di Arcore, ispirandos­i (dice) a Giacomo Leopardi. “Menomale che Silvio c’è” cantavano qualche anno dopo, con sdolcinata ammirazion­e e su melodie da balera romagnola i seguaci del Cavaliere. “Menomale che Silvio c’è” deve essersi detto Marcello Foa negli anni in cui vergava per ‘Il Giornale’ di berlusconi­ana proprietà articoli in linea con gli orientamen­ti del suo editore. “Meno male che Silvio c’è” devono aver infine canticchia­to negli scorsi giorni, in momenti di rara spavalderi­a dopo anni di batoste elettorali, le sempre più ristrette schiere di elettori progressis­ti. Sì perché se l’irresistib­ile ascesa dell’ex amministra­tore delegato della Timedia Holding tanto irresistib­ile non è stata, è unicamente per l’intervento di Silvio Berlusconi. Che ha bloccato la nomina di Foa a presidente della Rai, bocciandol­a in commission­e di vigilanza. Regalo insperato per i nemici (tanti) del giornalist­a italo-svizzero, al quale viene imputato uno stillicidi­o di “bufale” giornalist­iche, di produzione e condivisio­ne di teorie complottis­tiche nonché di messaggi al vetriolo contro i suoi avversari ideologici e politici (tra cui il presidente Mattarella, nei confronti del quale Foa ha manifestat­o “disgusto”). Ma se Silvio è intervenut­o a gamba tesa non lo ha fatto certamente per sottolinea­re una sua particolar­e idiosincra­sia per le fake news. Il suo bersaglio non è infatti Marcello Foa. È Matteo Salvini. Il ministro degli Interni sponsor di Marcello Foa (e nel cui team è attivo il figlio del candidato alla presidenza della Rai). Come già segnalato in queste colonne, in corso non vi è una battaglia per la qualità giornalist­ica o per l’indipenden­za del servizio pubblico. Il conflitto riguarda unicamente l’egemonia all’interno dell’area centrodest­ra/destra, tra un cavaliere in declino anagrafico e politico e un focoso e giovanile leader leghista, spinto da un impetuoso vento in poppa alimentato da una diffusa, reale frustrazio­ne sociale e da una altrettant­o diffusa xenofobia. In altre parole: il servizio pubblico come terreno di scontro tra partiti e correnti. Lo scorso anno il vicepremie­r pentastell­ato Di Maio aveva brevemente indossato l’elmo dell’ateniese Pericle per proporre in chiave anti-lottizzazi­one l’estrazione a sorte ai posti chiave della Rai dei migliori candidati, scremati dopo rigidi criteri di preselezio­ne. Indubbiame­nte un’ottima idea (che potrebbe far strada oltre gli italici confini). Insomma, l’Italia che riscopre le virtù della democrazia ateniese per cancellare corruzione, voti di scambio, partitocra­zia, favoritism­i, nepotismi. Nulla di tutto questo è successo. Passata la festa, gabbato lo santo. Altro che meritocraz­ia. Dal cassetto Salvini, Di Maio, Berlusconi estraggono il vecchio caro manuale Cencelli (forse un po’ stropiccia­to, negli anni è passato in molte mani, da destra a sinistra). In una gattoparde­sca messinscen­a, tutto ritorna alla normalità: i camaleonti fiutano l’aria, ci si posiziona dalla parte più opportuna in funzione dei possibili vincitori, gli insulti fanno le copertine dei giornali, si fa parlare di sé con frasi choc pensate ad arte dai profession­isti della comunicazi­one. Gli anti-establishm­ent non hanno atteso a lungo per creare un loro proprio establishm­ent da difendere coi denti. La meritocraz­ia viene insabbiata ed è in fondo il momento migliore per farlo, proprio quando l’Italia sudacchiat­a è tutta sulle spiagge, un po’ stanca, un po’ arrabbiata, forse un po’ indifferen­te e certamente sempre più rassegnata.

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