Natura morta con Chatrian
Ancora qualche giorno e poi, inesorabilmente, inizieremo a parlare di Carlo Chatrian al passato. Il brutto anatroccolo dei cinefili si è fatto cigno e sta per abbandonare uno dei festival più torridi che si ricordino per assumere il comando del circo polare berlinese. L’ho sempre percepito e paragonato a uno studente del primo banco, mai sopra le righe, simpatico fuori tempo massimo, aggraziato come il nano Dotto. Non hai ragioni per disprezzarlo, però non riesci mai a volergli bene sul serio, perché fa tutto giusto, consegna i compiti in tempo, alza la mano prima di parlare, cerca sempre di migliorare, non ti sorprende. Sta per salutare, per concludere il proprio ciclo e questo, per quel che mi riguarda, ha gettato una nuova luce sulla sua figura; perché in questa prima mezza settimana, anche se lievemente, ho percepito dei cambiamenti, e ora lo vedo come un uomo che ha scoperto di saper sorridere, perché se mi hanno chiamato i tedeschi significa che la macchina la so governare; eppure resta qualcosa di malinconico in lui, una punta di paura che gli vela gli occhi, una ruga nuova nella barba, un’ombra. Forse, dietro quella fronte alta, balugina il pensiero che ogni addio è un confronto con quel che abbiamo fatto, porta con sé la spinta e la gioia delle nuove sfide, così come il timore dell’oblio. Tutti noi abbiamo una specie di doppio che ci accompagna e che si rivela quando camminiamo sotto il sole, in uno spazio aperto o contro montagna. È l’ombra che ci suggerisce le frasi che non vorremmo ascoltare: il mio posto di lavoro, che curo con amore filatelico, non è per sempre, dare il massimo non è sufficiente, c’è sempre qualcuno più bravo di me. Mia moglie/marito può innamorarsi di un altro o di un’altra, sia che io ammiri le sue rivendicazioni d’indipendenza ed emancipazione, sia se, indossata la coppola e imbracciata la lupara, la convinca con le buone a produrre polvere in cucina (come insegna Claudia Cardinale nei ‘Soliti ignoti’). Persino i nostri figli possono dimenticarsi di noi e chiamare il nuovo direttore artistico del cuore della nostra ex, che a suo tempo ci aveva giurato amore: papà. Carlo Chatrian è stato, senza saperlo, l’ombra di Olivier Père, che è stato l’ombra di Mère che al mercato mio padre comprò. Adesso è il suo turno, i suoi collaboratori lo proteggono, la stampa lo preserva, tuttavia, ne sono certo, lui ha le orecchie che sbraitano rumors, giostre di nomi, giudizi che trinciano. Si muove su e giù dai vari palchi del Festival con la tranquillità fragile di chi allaccia la cintura destinazione Berlino, trattiene le emozioni, perché il compito va portato a termine con serietà umile. Vorrebbe però sapere se ha lasciato una traccia, un’orma che s’imprime. E allora affronta gli ultimi giorni nel solo modo che conosce: competenza, ottimismo bergmaniano, discrezione. Ha aggiustato la pettinatura, perché i suoi capelli ricci un po’ radi, se trascurati, rischiano di risultare vagamente sbarazzini, di pigliare rotte incontrollabili; indossa vestiti educatamente in contrasto tra loro: giacca blu, camicia panna dai quadretti solo accennati, pantaloni da bibliotecario. Presenta i film e gli ospiti con un pizzico di ci credo in più. Ultimamente si presenta spesso senza occhiali. Magari perché, come sanno tutti i miopi vintage, nel caldo che supera i trenta la montatura, anche se in acciaio ultraleggero, produce sudorazioni insolite e fastidiose, sul naso e dietro le orecchie; oppure perché, nonostante lui cerchi di mettere su il viso di chi non perde, indovina e non vuole vedere la natura della sua ombra, il futuro che incombe e che, almeno a Locarno, farà a meno di lui.