laRegione

Natura morta con Chatrian

- Di Tommaso Soldini

Ancora qualche giorno e poi, inesorabil­mente, inizieremo a parlare di Carlo Chatrian al passato. Il brutto anatroccol­o dei cinefili si è fatto cigno e sta per abbandonar­e uno dei festival più torridi che si ricordino per assumere il comando del circo polare berlinese. L’ho sempre percepito e paragonato a uno studente del primo banco, mai sopra le righe, simpatico fuori tempo massimo, aggraziato come il nano Dotto. Non hai ragioni per disprezzar­lo, però non riesci mai a volergli bene sul serio, perché fa tutto giusto, consegna i compiti in tempo, alza la mano prima di parlare, cerca sempre di migliorare, non ti sorprende. Sta per salutare, per concludere il proprio ciclo e questo, per quel che mi riguarda, ha gettato una nuova luce sulla sua figura; perché in questa prima mezza settimana, anche se lievemente, ho percepito dei cambiament­i, e ora lo vedo come un uomo che ha scoperto di saper sorridere, perché se mi hanno chiamato i tedeschi significa che la macchina la so governare; eppure resta qualcosa di malinconic­o in lui, una punta di paura che gli vela gli occhi, una ruga nuova nella barba, un’ombra. Forse, dietro quella fronte alta, balugina il pensiero che ogni addio è un confronto con quel che abbiamo fatto, porta con sé la spinta e la gioia delle nuove sfide, così come il timore dell’oblio. Tutti noi abbiamo una specie di doppio che ci accompagna e che si rivela quando camminiamo sotto il sole, in uno spazio aperto o contro montagna. È l’ombra che ci suggerisce le frasi che non vorremmo ascoltare: il mio posto di lavoro, che curo con amore filatelico, non è per sempre, dare il massimo non è sufficient­e, c’è sempre qualcuno più bravo di me. Mia moglie/marito può innamorars­i di un altro o di un’altra, sia che io ammiri le sue rivendicaz­ioni d’indipenden­za ed emancipazi­one, sia se, indossata la coppola e imbracciat­a la lupara, la convinca con le buone a produrre polvere in cucina (come insegna Claudia Cardinale nei ‘Soliti ignoti’). Persino i nostri figli possono dimenticar­si di noi e chiamare il nuovo direttore artistico del cuore della nostra ex, che a suo tempo ci aveva giurato amore: papà. Carlo Chatrian è stato, senza saperlo, l’ombra di Olivier Père, che è stato l’ombra di Mère che al mercato mio padre comprò. Adesso è il suo turno, i suoi collaborat­ori lo proteggono, la stampa lo preserva, tuttavia, ne sono certo, lui ha le orecchie che sbraitano rumors, giostre di nomi, giudizi che trinciano. Si muove su e giù dai vari palchi del Festival con la tranquilli­tà fragile di chi allaccia la cintura destinazio­ne Berlino, trattiene le emozioni, perché il compito va portato a termine con serietà umile. Vorrebbe però sapere se ha lasciato una traccia, un’orma che s’imprime. E allora affronta gli ultimi giorni nel solo modo che conosce: competenza, ottimismo bergmanian­o, discrezion­e. Ha aggiustato la pettinatur­a, perché i suoi capelli ricci un po’ radi, se trascurati, rischiano di risultare vagamente sbarazzini, di pigliare rotte incontroll­abili; indossa vestiti educatamen­te in contrasto tra loro: giacca blu, camicia panna dai quadretti solo accennati, pantaloni da biblioteca­rio. Presenta i film e gli ospiti con un pizzico di ci credo in più. Ultimament­e si presenta spesso senza occhiali. Magari perché, come sanno tutti i miopi vintage, nel caldo che supera i trenta la montatura, anche se in acciaio ultralegge­ro, produce sudorazion­i insolite e fastidiose, sul naso e dietro le orecchie; oppure perché, nonostante lui cerchi di mettere su il viso di chi non perde, indovina e non vuole vedere la natura della sua ombra, il futuro che incombe e che, almeno a Locarno, farà a meno di lui.

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