Gli esercizi di stile dei corti svizzeri
Siamo d’accordo, i giovani vanno incoraggiati, sostenuti, aiutati offrendo loro lo spazio per mostrare ciò che portano dentro. Ne restiamo convinti nonostante la visione della prima parte del concorso nazionale Pardi di domani. Già in passato abbiamo avuto il dubbio che l’era delle scuole di cinema, che formano in modo sempre più accurato, abbia prodotto delle storture. In altre parole troppi giovani professionisti tecnicamente preparati, ma del tutto sprovvisti di un sostrato culturale che li guidi nell’osservazione della realtà, di una profondità di sguardo che non ha niente a che vedere con un movimento di macchina, di idee e di una volontà feroce di esprimersi. I corti svizzeri finora visti a Locarno non ci hanno offerto spunti per mutare opinione, tutt’altro. In sala ci hanno atterriti una sconcertante povertà di idee, non solo l’incapacità ma l’apparente non volontà di dire davvero qualcosa, di misurarsi con l’inesauribile materiale che ogni giorno la realtà offre a chi voglia raccontare una storia, indagare uno spaccato di umanità, fissare l’obiettivo su qualcosa che scavi nell’animo dello spettatore. Piuttosto, i soliti esercizi di stile di chi ha visto tanti film ma la cui cultura, sprovvista di altri necessari, sostanziosi, profondi punti saldi, spesso si ferma all’immaginario audiovisivo; di chi ha imparato a usare ogni dispositivo di ripresa, ma dimentica che ogni inquadratura va riempita di senso e di emozione; di chi in fondo non mette né fame né sana ambizione in ciò che fa. Una sola eccezione: ‘Fait divers’ di Léo Yersin, che dimostra come un fatto di cronaca – la scoperta di un cadavere per due anni nell’appartamento accanto al nostro – possa essere l’inizio di un’allucinazione che ci dice qualcosa, di noi e del mondo in cui viviamo. CLO