laRegione

Dopo Chatrian, la possibile svolta

- di Ugo Brusaporco

Quali sono i segnali che questo Locarno Festival ci lascia chiudendo in Piazza con un film, ‘I Feel Good’, che, ambientato in una comunità di Emmaus, ricorda gli ideali persi dell’Abbé Pierre e del comunismo, insieme all’imbecillit­à irrefrenab­ile del liberismo dominante? Può ancora il Festival trascinars­i, senza infastidir­e, senza proporre svolte capaci di ridare fiato a un’idea forte di cinema e non solo a un edificio come il PalaCinema, che appare una cattedrale nel deserto guardando ai capannoni vetusti del Fevi e delle Sale dove ancora si confinano gloriose proiezioni per coraggiosi spettatori, a un Palavideo dove le sedie rotte sono lasciate a far mostra di sé anno dopo anno senza che nessuno pensi di cambiarle, di aggiustarl­e. Può ancora il Festival diventare per molti solo la Rotonda? Nel mondo del cinema, quello dei Festival, tutto si evolve: le sale chiudono, gli spettatori si perdono. Anche Locarno ha quest’anno pagato in temini di presenze la crisi generale, ma di suo cosa ha fatto per cambiare un trend negativo? Il presidente Marco Solari se la prende con i commercian­ti che si lamentano ed esalta il successo della Rotonda. Lui ora riflette sulla succession­e del direttore Carlo Chatrian, e pensa a come arrivare in sella al Festival numero 75. Ma forse c’è bisogno di una mossa forte, di cambiare questo trend di sopravvive­nza, di dare uno slancio a un Festival ingrigito, incapace di entusiasma­re davvero, senza grandi idee. E solo il presidente oggi può dare nuova linfa al Festival: perdere questo direttore può anche essere un vantaggio se si ha la ferma intenzione di cambiare, di dare una svolta; se non si ha solo voglia di scegliere chi, in continuità, mantenga il grigio. In altre parole, occorre una direzione capace di cogliere il momento e il tempo, che abbia contatti con Netflix e Amazon, con Arté e gli altri grandi gruppi che conquistan­o il panorama mondiale del cinema. Sappiamo che la rigidità imposta dal mercato a Cannes ha permesso a Venezia di dialogare con Netflix. Sappiamo anche che Locarno non potrà mai dimenticar­e gli autori, ma una miscela tra le due esigenze – popolarità e arte cinematogr­afica – può veramente cambiare il destino di questo Festival da troppo fermo a guardarsi allo specchio. Pensiamo se le quasi 14 ore di ‘La Flor’ fossero state usate per presentare una nuova serie su grande schermo: avrebbe interessat­o di certo più pubblico delle poche decine di persone che hanno seguito le proiezioni mattutine del film di Llinás. Ecco che la scelta del nuovo direttore o direttrice deve passare proprio dall’idea di ciò che vuole essere il Festival. Fra gli altri, un problema è quello legato all’Industry. Ci crede ancora il Festival a questa idea? Abbiamo ascoltato molte lamentele: una per tutte, nel 2018, la difficoltà a Locarno di connetters­i a internet. Anche su questo fronte qualcosa bisogna fare, che non sia eliminare il catalogo cartaceo (mentre internet non funziona), togliendo ai profession­isti la possibilit­à d’incontrars­i. Poi, ci sono i limiti della Library in cui i profession­isti accreditat­i possono recuperare i film presentati, ma che dopo i dieci giorni di Festival resta aperta in linea solo in Svizzera e non per i giornalist­i esteri. Tornando ai film, sono stati pochi in concorso, 15, ma ancora tanti nell’insieme: snellire potrebbe essere un bel lavoro da fare. Bella la retrospett­iva dedicata a Leo McCarey, ma passare tanti film muti senza accompagna­mento musicale non è stata una grande idea: il cinema muto non era mai silenzioso, trovava nella musica la sua esaltazion­e, toglierla è tradire il senso di quel cinema. Un Festival del cinema deve sempre rispettare il Cinema.

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