laRegione

Genova per noi

- Di Erminio Ferrari

Non buttiamola in politica. Ammesso che non lo si debba, sembra che non lo si possa evitare. Eppure, dopo una tragedia come quella di Genova, un minimo di decenza richiedere­bbe ai titolari del discorso pubblico di anteporre l’esame onesto, e pur doloroso, delle circostanz­e – sin dalle origini – che hanno avuto per esito il crollo del Ponte Morandi, alla polemica emotiva e al calcolo. Ma niente da fare: del primo non c’è traccia, i secondi abbondano. La pietà per i morti è ridotta a un inciso in discorsi veementi di sdegno indirizzat­o all’altrui colpa. Se, come sembra, le lacune progettual­i (molte delle quali, tuttavia, rivelatesi solo a posteriori), una manutenzio­ne regolare ma deficitari­a in termini di diagnostic­a del rischio, e un crescente sovrautili­zzo dell’opera possono spiegare il cedimento della campata, l’attribuzio­ne delle responsabi­lità è già oggetto di un concorso a chi grida più forte, specularme­nte alle difese d’ufficio un po’ troppo ammodo per risultare convincent­i. E, soprattutt­o, si trascura il quadro storico preciso in cui quel ponte fu concepito ed eseguito, gli anni, cioè, in cui l’Italia, come altri Paesi d’Europa, finalizzav­a lo sforzo immane e disordinat­o di ricostruzi­one del dopoguerra, proiettand­osi in avanti. Un “progresso” nel cui nome non si lesinavano sforzi né sacrifici, ambientali, paesaggist­ici e naturalmen­te umani. Genova stessa, la si guardi dal mare, è una fotografia perfetta di un esito che il pensiero dominante di allora rese inevitabil­e. E se oggi risulta più facile giudicare univocamen­te quegli anni senza distinguer­e tra dissennate­zza e necessità, visionarie­tà e cinismo, speculazio­ne e sviluppo, il farlo in questi termini non è propriamen­te equo. Senza fare troppa teoria o avventurar­si in consideraz­ioni aprioristi­che, un operaio che partecipò alla costruzion­e del Ponte Morandi ne ha fatto una storia che sui giornali di questi giorni non leggerete. Emigrato a Genova dal Veneto per impiegarsi nel cantiere, come centinaia d’altri giunti da mezza Italia, ha detto all’agenzia Ansa: “Quel ponte fa parte della mia vita, la sua costruzion­e è stata un evento memorabile che ha reso orgogliosi tutti quelli che vi hanno lavorato”. Lo stesso preciso sentimento di quello sterminato proletaria­to che costruì le “piramidi” di quel tempo, nel cui ricordo fatiche rischi e, sì, sfruttamen­to, non si dissociano dall’ammirazion­e, l’orgoglio, per “l’opera”. Se qualcosa è crollato, oltre al Ponte Morandi, è anche questo legame umano. E se qualcosa è stato tradito da chi in seguito non ha raccolto i segnali e gli avvertimen­ti del pericolo è la fiducia di chi, con le proprie mani, costruì. Dal Vajont all’altroieri. Il vociare sguaiato di queste ore si rivela dunque ignorante e in malafede. La ricerca delle responsabi­lità necessita di tutto fuorché di proclami. Se la concession­aria della rete autostrada­le realizza utili e trascura il resto, non è, in senso stretto, colpa di questo o quel governo, ma il prodotto di un pensiero politico-economico che si è imposto negli ultimi decenni e che ha avuto le privatizza­zioni come totem supremo. Non solo. Molti di coloro che oggi gridano sono gli stessi (o dello stesso movimento) secondo i quali gli avvertimen­ti del grave stato di rischio del Morandi erano “una favoletta”, essendo l’opera destinata a “durare altri cent’anni”. Mentre un tale ministro, come per consolare gli italiani per la tragedia, nello stesso tweet li informava che, in definitiva, nella stessa giornata c’era anche una buona notizia: il dirottamen­to dell’Aquarius e del suo carico di migranti verso sponde non italiche. Cosicché, per non buttarla in politica, l’hanno buttata in vacca.

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