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I salari crescono, anzi no

Unione europea e Svizzera accomunate dalla moderazion­e del costo del lavoro Per la prima volta dopo alcuni anni il livello degli stipendi tende ad aumentare. Un fatto vanificato dalla timida ricomparsa dell’inflazione.

- Di Generoso Chiaradonn­a

La Banca centrale europea ha quale unico obiettivo dichiarato quello della stabilità dei prezzi al consumo e da quasi un decennio (dallo scoppio della crisi finanziari­a del 2008, ndr) la sua politica monetaria espansiva è orientata a portare il tasso d’inflazione all’interno dell’Eurozona (i 19 Paesi sui 27 dell’Unione europea ad aver aderito alla moneta unica) prossimo al 2%. Un livello di rincaro ritenuto ‘sano’ per la crescita economica. Fino a oggi tale tasso (a fine giugno era dell’1,96% nell’Unione europea mentre per l’Eurozona leggerment­e inferiore, all’1,5%) è rimasto al di sotto del target. È solo negli ultimi mesi che i prezzi e con essi i salari hanno ricomincia­to ad aumentare. Uno dei segnali che gli economisti della Banca centrale europea attendevan­o da tempo e che indicano che la crescita economica si sta trasferend­o – con anni di ritardo – ai redditi dei lavoratori. L’aumento non è però tale da far stappare bottiglie di champagne: il 2% nella zona euro e il 2,7% in tutta l’Unione europea. In alcuni Paesi l’aumento è stato quasi trascurabi­le. In Italia, per esempio, i salari sono saliti in un anno appena dello 0,4%; in Portogallo sono addirittur­a

Eppure alla fine del mese non bastano mai

calati dell’1,15%. Se si tiene conto del tasso d’inflazione, basso ma in ripresa, l’aumento dei salari dal punto di vista reale risulta addirittur­a negativo. Da qualche anno la dinamica dei salari, ovvero la relazione tra quanto crescono le remunerazi­oni e una serie di altri fattori come il tasso di crescita dell’economia, il livello di disoccupaz­ione e l’inflazione,

nel mondo occidental­e non segue più le regole classiche. Per lungo tempo, infatti, la relazione tra salari e il resto dell’economia era considerat­a un fenomeno prevedibil­e: al calo della disoccupaz­ione, gli stipendi si alzavano poiché i datori di lavoro offrivano salari al rialzo per assumere i lavoratori ancora sul mercato, o per convincere chi già lavorava a cambiare azienda. Il maggior costo del lavoro si scaricava sui prezzi dei beni producendo inflazione. Tutto questo non avviene più, nemmeno in Svizzera dove il livello di disoccupaz­ione è storicamen­te basso (al 2,4% secondo i dati Seco e al 4,6% se si tiene conto del tasso Ilo, ndr). Addirittur­a per lo scorso giugno l’Ufficio federale di statistica ha certificat­o che nel 2017, per la prima volta dal 2008, i salari reali sono leggerment­e diminuiti. L’aumento dello 0,4 in termini nominali non è infatti riuscito a compensare un’inflazione che è stata dello 0,5%, cosicché in realtà il potere d'acquisto dei lavoratori è sceso dello 0,1%. Il tutto senza contare i premi delle casse malattia costanteme­nte in aumento e altre voci non incluse nelle statistich­e sull’inflazione. Tale crescita nominale, registrata in uguale misura nel settore industrial­e e nel terziario con variazioni settoriali, ha confermato la tendenza alla moderazion­e salariale osservata dal 2010, con tassi reali annui che non hanno superato l’1%. Negli ultimi cinque anni (dal 2013 al 2017) il ritmo annuo medio della progressio­ne dei salari reali è stato comunque, per l’insieme dei salariati, dello 0,9%. Durante questo periodo, nel settore secondario l’evoluzione reale annua media è stata del +0,8%. I cosiddetti rami “di media-alta tecnologia”, che sono anche i grandi rami esportator­i del settore industrial­e, sono quelli che hanno influito maggiormen­te sull’aumento dei salari reali nell’arco di questi cinque anni.

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