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Fuga da un’idea di poesia post umana

- Di Maurizio Cucchi

Quarant’anni fa, al Club Turati di Milano, sede prestigios­a, si svolse un convegno sul movimento della poesia degli anni 70. I curatori erano due poeti, allora giovani, Tomaso Kemeny (classe ’38) e Cesare Viviani (’47), i partecipan­ti poeti tra i più validi. Ricordo Antonio Porta e Giovanni Raboni, oltre a Giuseppe Conte e Milo De Angelis. Fu un fiorire estremo di dichia- razioni di poetica, di idee e ideologie letterarie che si incrociava­no incessante­mente. Si parlava del dono della poesia e del mito, della parola letteraria e del parlato quotidiano. Nascevano o si consolidav­ano pacificame­nte posizioni e schieramen­ti. Confesso che me ne sentivo orribilmen­te subissato, a tratti oppresso. E rimasi muto, tanto che, sollecitat­o da importanti figure della critica e degli studi come Marco Forti e Maria Corti, risposi sempliceme­nte: “Non ho niente da dire”. Insomma mi avvalsi annoiato della facoltà di non rispondere. Uscì anche un libro (‘Il movimento della poesia degli anni Settanta’, edito da Dedalo) che documentav­a l’evento, che oggi appare remotissim­o e del quale, confesso, provo persino un senso di vile pentimento e onesta nostalgia. Ma non si tratta di un sentimento dovuto al solito rimpianto del bel tempo passato, ma di una sensazione negativa a fronte di una realtà contempora­nea tanto mutata nello specifico. Mi spiego meglio. Se allora era il tempo della discussion­e sempre aperta, del continuo dibattito (persino irriso mutando il termine in romanesco “dibbattito”), oggi non si ragiona né più si discute di idee, orientamen­ti estetici, scelte culturali. Se allora due giovani poeti si confrontav­ano, per esempio, su neo avanguardi­a e scuola lombarda o si chiedevano, tanto per fare un esempio: “Ma tu opteresti per Rebora o Sbarbaro”, “per Erba o Majorino”, “per Sanguineti o Orelli”, oggi si sente solo parlare di piccoli, miseri affari. No, non è questione di soldi, che alla poesia continuano a essere cosa del tutto estranea, ma di scemenze tipo: “Dove vai a leggere?” “Quanti like hai?”, “Dove pubblichi?” e così via. Mentre sull’uso degli strumenti, sulle problemati­che linguistic­he e formali, sulla presenza dei modelli, non si spendono quasi mai parole utili. In genere, si viaggia sul già dato, vale a dire sul bagaglio di conoscenze e tecniche già storicamen­te acquisite. Con il risultato che se i nuovi validi esistono – ed esistono, eccome! – rischiano di essere sommersi da un’immensa popolazion­e indifferen­ziata, insomma di verseggiat­ori più o meno tutti uguali. Siamo in fondo vicini a una sorta di concezione post umana anche della poesia (e più in genere della letteratur­a, vista la pochezza di troppi narratori). E questo in piena sintonia con il contesto, dove il confronto serio sulla sostanza delle idee è pressoché sparito, a vantaggio di una chiacchier­a scontata e di una perpetua cattiva autopubbli­cità, appunto, fieramente pop e post umana. Ma occorre essere ottimisti. L’essere umano non può nutrirsi di alimenti tanto poveri e presto o tardi tornerà sulla via del meglio, del tridimensi­onale, della ricerca profonda.

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