laRegione

Non sono i greci i veri vincitori

- Di Generoso Chiaradonn­a

La fine del bailout per la Grecia non significa di certo l’uscita dal tunnel dell’austerity che ne ha stravolto la società e l’economia. I segni positivi accanto alle cifre del Pil e a quella dell’avanzo primario di bilancio sono arrivati dopo otto anni di dure riforme imposte dai creditori, che se da una parte hanno evitato l’uscita di Atene dall’euro, dall’altra hanno ipotecato e imbrigliat­o l’azione politica dei prossimi governi ellenici, di qualunque colore politico, da qui al 2060. Fino a quella data, infatti, i conti pubblici greci – secondo gli economisti di Bruxelles – dovranno avere un saldo positivo del 2,2% l’anno per riportare il rapporto debito-Pil sotto il 100% dall’attuale 178%. Una fede totale nella bontà del ciclo economico che a confronto i gloriosi piani quinquenna­li di sovietica memoria sprizzavan­o pessimismo da tutti i pori. Non sarebbe stato diverso se, invece della moneta unica europea, la Grecia avesse avuto ancora la sua Dracma. Le menzogne statistich­e sullo stato delle sue finanze pubbliche (tenute artificial­mente sane con magheggi contabili consigliat­i da rinomati istituti finanziari, Goldman Sachs in primis) non sarebbero state certamente meno evidenti con una valuta nazionale. I creditori internazio­nali (banche, fondi d’investimen­to e singoli risparmiat­ori) non avrebbero fatto, come si dice, buon viso a cattivo gioco. Ovvero, non avrebbero accettato di buon grado di vedere i loro capitali andare in fumo, bruciati da svalutazio­ne monetaria e inflazione. I precedenti, dal Messico all’Argentina fino alla più recente crisi turca, non mancano. Certo, il governo di Atene, in caso di sovranità monetaria, avrebbe potuto dichiarare bancarotta, ristruttur­are il debito e sperare in un ritorno degli investimen­ti a bufera passata. Le perdite finanziari­e sarebbero state per la maggior parte del settore estero, che ci avrebbe pensato due volte prima di riprestare denaro a un debitore sovrano sì, ma insolvente. Così non è stato perché il sistema della moneta unica non prevede regole per un default controllat­o di uno dei suoi membri. Eppoi c’era il settore finanziari­o europeo (soprattutt­o quello francese e tedesco con Société Générale e Deutsche Bank) fortemente esposto nei confronti dell’economia greca. Il primo pacchetto di aiuti dell’Unione europea, quello da 86 miliardi di euro, frutto di prestiti bilaterali prima che un accordo intergover­nativo mettesse in piedi il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), servì a evitare perdite miliardari­e di pari importo ai bilanci delle banche francesi e tedesche. E fu quel primo piano di sostegno finanziari­o a far sottoscriv­ere un memorandum d’intesa tra il governo greco dell’epoca (si era nel 2010) e la famosa Troika (Ue, Bce e Fmi) con il quale a fronte dell’aiuto, a dire il vero poco disinteres­sato, s’imponevano profonde riforme del mercato del lavoro, della pubblica amministra­zione, del sistema previdenzi­ale e si apriva la stagione delle privatizza­zioni. Da allora porti, aeroporti e ferrovie greci, ma non solo, sono passati a società straniere, nell’ordine cinesi, tedesche e italiane. Ne seguirono altri due di programmi di assistenza finanziari­a e la contropart­ita è sempre stata quella della richiesta di un arretramen­to dello Stato in settori anche sensibili come la sanità. In questi otto anni i governi che si sono succeduti sono passati dalla sinistra socialdemo­cratica di Papandreou a quella radicale (con una stampella nazionalis­ta) di Tsipras passando per i conservato­ri di Samaras, ma la politica economica non ha potuto arretrare di un centimetro dall’ortodossia imposta dalla Troika. Il risultato è una società greca più povera (la disoccupaz­ione è al 21%) e disillusa.

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