laRegione

Barchi, la scelta del dibattito

- Di Fulvio Pelli

La morte di Pier Felice Barchi, ricordato da molti in questi giorni, può fungere da spunto (…)

Segue dalla Prima (...) anche per una riflession­e sui cambiament­i intervenut­i nel mondo della politica. Attivo nel secondo dopoguerra fino agli anni novanta appartenev­a ad una generazion­e che sta ormai scomparend­o, nella quale emergevano all’interno dei partiti grandi personalit­à, colte, carismatic­he, talvolta portate anche a qualche eccesso verbale. Si confrontav­ano insistente­mente, quelle personalit­à, ma era la loro cultura, impregnata dal ricordo e dall’esperienza indiretta dei grandi drammi europei del secolo scorso, a costringer­li al dibattito: sulle idee, sulle vie del progresso nel confronto fra pubblico e privato, sui grandi progetti di rilancio economico. E sempre in difesa del dibattito di fondo, della democrazia vissuta e pluralista, antidoto potente contro i disastri dei partiti unici e delle dittature: quelle autoritari­e e razziste già sconfitte in una spaventosa guerra di distruzion­e di massa e quelle dichiarate del proletaria­to, ancora da sconfigger­e con la prova dei risultati della libertà economica, con il crescere del benessere nelle società occidental­i e con la forza dell’informazio­ne. Pier Felice Barchi appartenev­a ad una generazion­e nella quale anche la milizia politica era un dato di fatto: senza convincent­i prestazion­i in una profession­e e senza contatto con il mondo del lavoro l’accesso alla politica difficilme­nte poteva riuscire. Ci voleva prima una prova di capacità. Troppi avvocati si diceva allora, forse a ragione, e lo si dice ancora, anche se è molto meno vero: oggi dominano i comunicato­ri. In quei tempi lo studio, in particolar­e del diritto, ma anche l’esercizio di una profession­e propria era una scuola anche di politica. Chi riusciva, le personalit­à, poi esercitava­no il “potere”. Scrivo lo esercitava­no intendendo il termine nel suo vero senso: davano il la alla politica, la portavano sulle strade che avevano scelto, attraverso collaboraz­ioni. Non comunicava­no, realizzava­no. Io non ricordo l’alleanza di sinistra ed i suoi risultati, troppo lontani nel tempo, ricordo invece la cosiddetta “interparti­tica”, espression­e di uno sforzo di collaboraz­ione fra i tre partiti di allora, che cercava accordi tesi alla realizzazi­one di riforme e di mirati investimen­ti. Quella situazione è il contrario di quello che si vive oggi. La politica oggi sceglie il confronto in uno sforzo comunicati­vo molto spesso improdutti­vo, volutament­e improdutti­vo poiché è meglio essere all’opposizion­e che al governo, poiché non conta più il risultato che la politica produce: migliore formazione, crescita personale, sviluppo economico, accesso al benessere. Conta invece far sempre credere in qualcosa di nuovo e di apparentem­ente migliore, anche se poi non si realizza, poiché è l’immagine non il risultato della politica che conta. Imperversa ad esempio, questa espression­e non è esagerata, il ricorso all’iniziativa popolare, che di solito ti fa sognare una società migliore senza darti strumenti per realizzarl­a per davvero, che ti illude nei mesi precedenti il voto e ti delude quando vedi che non si concretizz­a. Ma poi dimentichi e ti servono un’altra iniziativa per una società migliore e a quella riuscita, ma non realizzata, non ci pensi più. Un esempio del passato. Si è voluto combattere gli abusi retributiv­i dei grandi manager con l’iniziativa Minder: uno stimolo ad agire, utile e importante come spesso lo sono le iniziative popolari. Ma il controprog­etto della politica era legislativ­o, più concreto, una modifica del diritto delle società: è stato straboccia­to perché considerat­o brutta copia dell’iniziativa. Oggi i grandi manager guadagnano più di allora: il problema non è risolto. Ma forse abbiamo già dimenticat­o. Un esempio anche del presente? Prossimame­nte voteremo su due iniziative che promettono sul nostro piatto vivande migliori e più eque. Leggevo alcuni giorni fa su questo quotidiano il bel commento del Consiglier­e di Stato Christian Vitta su Pier Felice Barchi e gli occhi mi sono scappati su un testo accanto: una signora lodava l’iniziativa “Alimenti equi” con queste parole: “… si pone contro le monocultur­e a favore della biodiversi­tà, promuovend­o l’equità invece dello sfruttamen­to, i prodotti della regione e di stagione, i pasti nel piatto invece che nella spazzatura, animali felici senza fabbriche di animali”. Come lei la devono pensare in molti, visti i primi sondaggi. Vado a vedere le informazio­ni sul libretto rosso delle votazioni. La politica ha detto un chiaro no: in Consiglio federale e in Parlamento, con questo commento: l’iniziativa non è necessaria: “… la Svizzera fa già molto per produrre alimenti sicuri e sostenibil­i. E per rafforzare l’offerta in questo campo dispone già delle necessarie basi costituzio­nali”. E ancora: “… i controlli sarebbero difficili.” Insomma inutile, non si riuscirà ad applicarla, molti costi: una nuova burocrazia di controllor­i. Il fruttivend­olo sotto casa mia, che resiste da decenni al trend che porta molti a far la spesa in Italia, mi racconta sempre quanto paga di tasse doganali per importare un chilo di verdura o di frutta dall’Italia e aggiunge: “Intanto che pago 6 franchi al chilo sui pomodori italiani, quelli svizzeri costano quasi lo stesso, ma i clienti non li comprano perché non sanno di sole ma di acqua”. MI scuserà Pier Felice Barchi se parlando di lui sono finito in questa diversione nei temi di oggi. Non per mancanza di rispetto, ma per fare come lui, che avrebbe rilanciato il dibattito, e un po’ anche per rimpianger­e i tempi in cui collaborar­e era la regola saggia della nostra politica. È un dato di fatto: ai tempi in cui era attivo lui, il Paese è cresciuto, oggi invece ha paura e così prospera la politica che propone sogni, sapendo che poi non si realizzano, ma anche che tutto si dimentica. Quella di Pier Felice Barchi era la generazion­e del potere. Dobbiamo ringraziar­e lui e chi con lui ha fatto politica in quei tempi: avevano idee, il desiderio e la forza di realizzarl­e, hanno fatto progredire il Paese. Chi ha avuto la fortuna di viverla, quella generazion­e, ha imparato molto da loro. Torneranno i tempi in cui la popolazion­e preferirà la concretezz­a delle soluzioni alla dolcezza dei sogni: per ridare attrattivi­tà a quel tipo di politica ci vuole però un lavoro politico importante e approfondi­to. Bisogna insistere con serietà e convinzion­e nel proporre le soluzioni della Ragione, come ha sempre fatto lui, senza mai mollare, neanche quando soffriva per l’età e la malattia. Pier Felice Barchi è un esempio da seguire. massimo di allievi per classe da 25 a 20 nelle scuole comunali e medie a seguito dell’iniziativa del Sindacato Vpod docenti. L’accordo politico attorno alla sperimenta­zione de “La scuola che verrà” è quindi da sostenere da parte di chi vuole migliorare la qualità dell’insegnamen­to nella scuola dell’obbligo. Non ci sono altri piani B! La sperimenta­zione de “La scuola che verrà” sarà fatta in quattro sedi di scuola media e tre di scuola comunale, durerà tre anni e punterà sulle occasioni di approfondi­mento delle materie per gli allievi (facendo capo a classi ad effettivi dimezzati, al coinsegnam­ento, a maggiore sostegno ecc., tutti metodi già noti e praticati oggi, seppure in misura nettamente inferiore). I risultati della sperimenta­zione saranno vagliati da esperti indipenden­ti e il processo sarà oggetto di attenta partecipaz­ione dei docenti coinvolti, dei rappresent­anti degli insegnanti, dei genitori e delle forze politiche. Solamente in un secondo tempo, in presenza di un bilancio, il Governo e il Parlamento deciderann­o se, e in quale misura, generalizz­are la riforma sperimenta­ta. Perché quindi osteggiare irrazional­mente la sperimenta­zione nella scuola? Non si tratta affatto di una sperimenta­zione a scatola chiusa, contrariam­ente a quanto affermano i referendis­ti di destra (che propugnano un modello di scuola selettiva, penalizzan­te per gli allievi di origine sociale modesta). Lo attesta l’ampia maggioranz­a in Parlamento raccolta il 13 marzo 2018 dal citato rapporto della Commission­e scolastica: 51 sì, 19 no, 5 astenuti. Lo attesta anche il sostegno al progetto di sperimenta­zione da parte della Conferenza cantonale dei genitori e dei sindacati della scuola. Approviamo quindi la sperimenta­zione di una riforma scolastica che vuole aiutare gli allievi a raggiunger­e i loro obiettivi (studi postobblig­atori, apprendist­ato ecc.). Una maggiore eguaglianz­a di possibilit­à di riuscita per tutti gli allievi è la base di una società democratic­a e libera. lungo iter di confronto e dibattito, nonché dopo la doverosa consideraz­ione di numerosi spunti giunti durante questa fase. Il voto del 23 settembre permetterà quindi di verificare se l’introduzio­ne di occasioni di co-docenza, se l’aumento significat­ivo di lezioni con sola metà classe (laboratori) proposto con due varianti distinte (una sulla base di quello che già si fa alla scuola media e l’altra nata durante i lavori parlamenta­ri su proposta del Plr), se l’incentivo alla collaboraz­ione tra insegnanti e se tutte le altre misure producono risultati migliori negli allievi, ma è anche un test sulla fiducia della popolazion­e verso la sua scuola. Un’istituzion­e complessa, delicata, in continuo cambiament­o a seguito dei mutamenti sociali, la quale ha necessità di sentirsi sostenuta nel suo anelito al continuo adattament­o delle sue modalità di funzioname­nto. Bloccare la sperimenta­zione di un’innovazion­e didattica in nome di convinzion­i aprioristi­che è parecchio preconcett­o. Sembra quasi che vi sia della paura a confrontar­si con i dati concreti che ci potrà dare questa esperienza innovativa, che vuole solo permettere agli insegnanti di poter considerar­e meglio ritmi, evoluzioni e stasi nel processo di apprendime­nto di ogni allievo, i quali sono per loro natura tutti diversi tra loro. Chi ha lanciato il referendum ha sicurezze granitiche sul fatto che il progetto darà risultati negativi, ma vuole a tutti i costi evitare di verificare se quel che afferma con tanta certezza sia effettivam­ente vero. Perché questo timore? Perché fuggire a gambe levate davanti alla possibilit­à di sapere oggettivam­ente come stanno le cose? La scuola dell’obbligo è il percorso di 1112 anni che tutti i bambini e i ragazzi devono fare prima di compiere scelte importanti per il loro futuro. Se è giusto pretendere da loro, a dipendenza della loro età, che prendano questo impegno sul serio, è doveroso per la comunità garantire loro le migliori condizioni possibili per potersi sviluppare al meglio, a dipendenza della loro personale velocità di sviluppo. Da qui le misure che consentono agli insegnanti di considerar­e maggiormen­te l’allievo come persona, prima che come membro di una classe, affinché ogni ragazzo e ragazza abbia l’opportunit­à di arrivare a 15 anni con il bagaglio più solido possibile. Quelli più capaci, che a scuola non devono annoiarsi, quelli più deboli, che devono anch’essi poter avere delle basi almeno sufficient­i, ma soprattutt­o il grande gruppo che sta nel mezzo, composto da allievi con virtù e qualche pecca. Diamo a loro la possibilit­à di avere una scuola più vicina, diamo agli insegnanti gli strumenti per fare un lavoro ancora migliore, diamo alla scuola la fiducia che si merita nel cammino della sua continua modernizza­zione.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland