laRegione

New York la maledetta

Ne ha vinti cinque di fila, di Us Open, l’ultimo però nel 2008. Da allora, solo delusioni per Federer. Con l’apice nel 2011.

- Di Marzio Mellini

Che il rapporto con gli Us Open sia un po’ tormentato, lo sottolinea un dato statistico: l’ultimo trionfo a New York di Roger Federer risale addirittur­a a dieci anni fa. Non che non l’abbia mai vinto, l’Open nella Grande Mela, ma per l’ultima vittoria si torna al 2008. È trascorsa un’epoca, in termini sportivi. Un decennio lungo il quale ha continuato a mietere successi, altrove, anche nello Slam, perfino a Parigi, sulla terra, ma non a New York. E quanto tormentato sia il rapporto del Sommo con il cemento americano lo testimonia un incontro su tutti, quella semifinale del 2001 in cui fallì due matchball contro Novak Djokovic. Un penultimo atto seguito a quello dell’anno precedente, anche quello finito male, anche quello segnato da due matchball falliti al quinto dall’elvetico. Ma quanto accadde nel 2011 non ha paragoni, quanto a drammatici­tà. E qualcosa significò, nella carriera del basilese. Gli appassiona­ti di tennis non possono non ricordare quella partita, quel quinto set di una sfida rimessa in carreggiat­a dal serbo con un dritto tirato a tutta, a occhi chiusi, come lui stesso poi ammise, con l’intento non di fare il punto, ma forse di colpire qualcuno a caso, di sfogare la frustrazio­ne per un incontro che Federer stava per portare a casa, tra il tripudio del pubblico adorante. Reo, stando al serbo, di tifare eccessivam­ente per il basilese, e non abbastanza per lui. Se la prese non poco, il serbo, ma il destino seppe ripagarlo con gli interessi. Parziale favorevole a Roger di 6-7 4-6 6-3 6-2 5-3 40-15, servizio Federer. Due matchball. Partita

chiusa. Quantomeno, è quello che tutti pensano, giocatori compresi. Battuta a uscire dell’elvetico, manganella­ta del serbo ormai consegnato­si al destino di sconfitto, e pallina a duecento all’ora che si comprime sulla riga laterale sul lato opposto del campo del rivale e consegna il 40-30 che l’elvetico sprecherà, riaprendo gioco, set e incontro.

A volte, il destino...

La vinse Djokovic, quella semifinale, perché Federer da quei due punti persi non si riprese più, cedendo

di schianto, disorienta­to e seccato, consegnand­o allo sfidante una partita già vinta. Già vinta (da Roger) anche secondo Djokovic, che in quel dritto mise solo rabbia e frustrazio­ne, non certo convinzion­e e precisione. «Soltanto un giocatore che non ci crede più può tentare un colpo come quello», commentò Federer, stizzito. «È incredibil­e essere costretto a commentare una sconfitta, quando invece dovrei essere qui in veste di vincitore» disse poi in conferenza stampa. Tant’è, il fato decise che quella semifinale avrebbe dovuto svoltare. Ed è come se fosse svoltato anche il feeling del basilese con un torneo che lo ha respinto anche altre volte. Tutto, in fondo, ebbe inizio nel 2009, l’anno successivo al pokerissim­o di trionfi filati iniziato nel 2004 e concluso nel 2008. Fu battuto da Juan Martin Del Potro (3-6 7-6 4-6 7-6 6-2) nonostante un parziale di due set a zero. Federer era reduce dalla prima (e unica) vittoria al Roland Garros e dal sesto trionfo a Wimbledon, un traguardo che gli consentì di superare Pete Sampras quanto a titoli dello Slam vinti: diventaron­o 15, contro i 14 dello statuniten­se. Dopo quel tonfo del 2009, Roger una sola altra volta riuscì a portarsi in finale a New York. Fu ancora contro Novak Djokovic, nel 2015, il quale si impose 6-4 5-7 6-4 6-4. Ancora non basta per parlare di “maledizion­e”, agli Us Open? E allora ricordiamo che nel 2013 e nel 2017 si arrese a Tommy Robredo negli ottavi, rispettiva­mente Juan Martin Del Potro nei quarti, a causa di problemi alla schiena. E chiudiamo con il 2016: in quell’anno manco ci andò, a New York, perché dopo Wimbledon si fermò, in quanto infortunat­o al ginocchio.

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KEYSTONE C’è un trend negativo da invertire, ma non sarà semplice

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