Nuova Festival(i)era
Lili Hinstin, francese, porta al Locarno Festival la sua voglia di ‘scoperta e libertà’
Il nuovo direttore è lei, 41 anni, da Parigi, negli ultimi anni al Festival di Belfort, poco oltre il confine svizzero. Cinefila ma di formazione più ampia, giovane ma con esperienza, decisa a preservare il ‘peso simbolico’ del Festival ma pronta ad esplorare nuovi orizzonti creativi, dalla serialità fino ai videogiochi. Ma convinta di una cosa: ‘Non è questione di contenuti, i giovani sono più curiosi di quanto si creda’.
All’ingresso nella sala del Gran Rex, scortata da Marco Solari, ogni angolo del suo viso irregolare era tirato dall’emozione. Però, assorbita la selva di sguardi su di lei, Lili Hinstin si è poco alla volta distesa, disponendosi al suo ruolo con la serenità di chi ripone fiducia nelle proprie idee. Dopotutto, non pensava neanche di candidarsi – si è lasciata convincere da Olivier Père – e ora si ritrova direttrice del Locarno Festival. Nata a Parigi nel 1977, laureata in Lingue, Letteratura e Civiltà straniere, con indirizzo filosofia, già giovane produttrice di film, è stata responsabile delle attività cinematografiche dell’Accademia di Francia a Roma e vicedirettrice di ‘Cinéma du Réel’ a Parigi. Fino a novembre sarà ancora direttrice del Festival internazionale del film di Belfort, in Francia, ma fin da subito si metterà al lavoro per il Locarno Festival. Dopo una decina di interviste con radio, tv e stampa, si accomoda in una poltrona vicino a noi e, nonostante la stanchezza, sfoggia un ottimo italiano, anche se con qualche simpatico neologismo...
Quando ha conosciuto questo festival?
Credo che tutti quelli che lavorano nel cinema conoscano il Locarno Festival prima di venirci. Anche come giovane produttrice speravo tanto che i miei film venissero selezionati, non è mai successo purtroppo. È un festival che nel mondo del cinema ha un peso simbolico molto forte, è un marchio che certifica qualità e avanguardia. Da sei anni vengo ogni estate, per noi di Belfort è sempre stato molto importante.
Cosa spinge una filosofa verso l’immagine?
Me ne occupavo già, ho iniziato con un progetto al liceo nell’anno del centenario del cinema. Avevo già una passione molto forte, ma a me sembrava che il cinema si studiasse nelle sale vedendo più film possibile. Non mi sono iscritta in cinema all’università perché mi sembrava una scelta un po’ povera, quello potevo farlo anche da sola. Ho preferito studiare in un campo in cui non potevo andare avanti da sola: se uno non mi spiega Hegel, non lo capisco. Poi ho passato i miei studi andando al cinema...
In che misura un retroterra culturale più ampio può nutrire il lavoro di un direttore?
Io credo che la cultura sia l’incontro con il pensiero altrui. E questo fa bene a qualsiasi essere umano; confrontarsi con un pensiero, purché sia interessante. La bellezza di un testo, la bellezza di un’opera d’arte, la bellezza di un film, il rapporto con la bellezza è sempre un’esperienza forte che nutre chiunque. Poi, come lavoro io ho scelto di valutare degli incontri possibili fra un pubblico e dei creatori di mondi.
Lei al cinema che cosa cerca?
Prima di tutto mi chiedo se non sono diventata una spettatrice anomala, perché vedo mille film all’anno. È una visione particolare, nutrita da qualcosa di fondamentale come la conoscenza del passato e del presente. Però, quando ci penso, mi rendo conto di cercare la stessa cosa di chiunque, l’emozione. Un’emozione che può essere di natura diversa, intellettuale o sentimentale, o sorprendente.
Il presidente ha parlato proprio di sorpresa e coraggio come cardini del Festival. Che cosa vuol dire essere coraggiosi?
Il cinema, come forse ogni altro settore, ha una componente molto pecorile...
Scusi?
Che si muove come le pecore... Per cui si è indotti a pensare tutti allo stesso modo. È anche umano: se uno che tu rispetti e ammiri ti dice che un film è geniale, gli credi. Magari a volte le persone si convincono sinceramente di ciò che ha detto qualcuno di potente. Il coraggio allora consiste nell’affermare scelte personali, che vadano o non vadano contro corrente.
E la sorpresa, qui a Locarno?
Beh, il pubblico di Locarno è forse il più acuto al mondo, davvero... Ma si deve iniziare con l’emozione più forte, provare piacere davanti a un film.
Come avrà già notato, il presidente è terrorizzato dall’idea che questo festival invecchi con il suo pubblico. In che direzione muoversi per farlo ritornare giovane?
Condiviso totalmente questa paura, ce l’abbiamo anche a Belfort. In Europa la frequentazione dei cinema va ancora bene, ma l’età del pubblico si alza. Bisogna però pensare che non si tratta di preservare in qualche modo la nostra attività, ma di avere un contatto con le nuove generazioni: è bello instaurare un legame con i ragazzi di 20 anni, a me interessa parlare con loro, capire che cosa gli piace, condividere proposte con loro. Forse è una vocazione un po’ pedagogica, ma se si ama il cinema si ha voglia di farlo scoprire ai più giovani: io l’ho scoperto così, al liceo, a 17 anni, grazie a una persona che ci ha aperto un mondo favoloso. Oggi, di quella classe ci sono almeno quattro persone che lavorano nel cinema. Ma un giovane deve avere l’opportunità di incontrare questo mondo, dobbiamo crearle queste opportunità.
In che modo? Mostrando loro cosa?
La mia esperienza mi ha convinta che il rapporto con i giovani non è legato al contenuto, perché i giovani sono molto più curiosi e aperti di quanto si creda. È una forma di disprezzo verso il pubblico produrre film sciocchi perché si pensa che voglia quello. Piuttosto, bisogna iniziare a creare le condizioni pratiche affinché i giovani possano venire, ad esempio i luoghi per alloggiare a costi non troppo alti. Dobbiamo offrire loro delle possibilità di avvicinare e vivere il Festival, ideare modalità di incontro e di scambio che somiglino alle loro pratiche di socializzazione, appropriarci di un loro modo di vivere e condividerlo con loro.
Lei ha anche detto della necessità di aprirsi ai nuovi attori produttivi ed economici, come Netflix e Amazon, oppure verso altre modalità di creazione, come i videogiochi, o di fruizione del cinema, come la virtualità. Riguardo alla serialità televisiva si è da tempo infranto il luogo comune che quello fosse cinema di serie b, verso i videogiochi resta invece un forte pregiudizio...
Il videogioco può portare in sé un mondo di creazione visiva estremamente interessante, e ci sono sempre più giovani artisti che lavorano a queste dinamiche di interazione e di racconto. Come nel caso della realtà virtuale, queste sono forme di fruizione individuale, per cui noi dobbiamo creare le possibilità di viverle. Di certo non in Piazza Grande...
Qual è il ruolo culturale di manifestazioni di questo tipo?
Ha a che fare con il rapporto con l’uomo, è un modo di aprirsi ad altre realtà, altri mondi, altri modi di vivere. È un primo passo per mettersi nei panni dell’altro. In questo senso è una sfida politica. Ed è un modo per dare accesso a tutti alla bellezza, che non deve essere riservata a chi già la conosce, a un’élite.