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Cinquant’anni dal sogno di libertà

‘Nessuno si aspettava un’azione di forza’, racconta Bozana Kohler, fuggita nel 1965 dalle oppression­i della Praga comunista dove persino i cartelli delle manifestaz­ioni erano numerati per controllar­e i manifestan­ti

- Di Simone Roncoroni

Nell’agosto del ’68 i carri armati sovietici infrangeva­no il sogno di libertà di Praga. Bozana Kohler, scappata dalla Cecoslovac­chia nel ’65, ci racconta paure e speranze di un Paese.

“Quando sei chiuso in una dittatura, cresce in te una forza di scappare e di vedere incredibil­e, ti carica”. A cinquant’anni di distanza la signora Bozana Kohler non si scorda quel forte desiderio di libertà che l’ha portata a prendere la difficile decisione di lasciare la famiglia e il Paese. Grazie alla mediazione del console Riccardo Molinari, abbiamo potuto ascoltare la testimonia­nza di chi ha vissuto personalme­nte l’illusione del sogno cecoslovac­co. L’incontro è avvenuto presso gli uffici del Consolato della Repubblica Ceca a Lugano. Nata a Praga nel 1941, la signora Kohler ha studiato arte folklorist­ica all’università prima di lasciare il Paese nel 1965 per recarsi in Italia. A Milano ha lavorato nella moda come disegnatri­ce e rappresent­ante, collaboran­do con importanti aziende d’abbigliame­nto, Elena Ricci su tutte. I tanti viaggi lungo l’Italia l’hanno portata a conoscere Paolo Hotz, ingegnere scientific­o che l’ha condotta in Svizzera e l’ha sposata a Lugano, dove vive tuttora. Gentile e disponibil­e, la signora Kohler ripercorre gli anni che precedono la Primavera di Praga, raccontand­o come si viveva in un Paese comunista e spiegando le ragioni per cui è riuscita a lasciare il Paese prima del ’68. «A Praga lavoravo in una bigiotteri­a e contempora­neamente studiavo arte all’università, sono specializz­ata nell’arte tradiziona­le, folklorist­ica. Mio padre in pensione s’impegnava a farmi studiare a casa, mi obbligava a lasciare in cantina tutti i libri che ricevevo a scuola e mi faceva studiare altri libri, moderni e spesso proibiti. Diceva: cosa sono queste robe, cosa ti fanno fare ’sti comunisti? Era una situazione un po’ particolar­e, i miei compagni non avevano quest’apertura mentale che mi ha trasmesso mio padre».

Come si viveva a Praga prima del ’68?

Ogni occasione era buona per lasciare la città e scappare qualche giorno in campagna. Una boccata d’aria che ci permetteva di vivere in modo più libero senza tutti i vincoli della città. La musica e l’arte si sviluppava­no in questi luoghi, nelle case abbandonat­e che riuscivamo a ristruttur­are. Invece in città si viveva più in casa, la religione e le tradizioni si tenevano nascoste.

Come reagiva alle restrizion­i del regime?

In quei tempi sognavo la libertà, opposta a un’oppression­e in cui non si poteva essere sé stessi. Lavoravo in un negozio di articoli folklorist­ici, un’attività in centro a Praga; dicevo ai clienti “ah siamo comunisti, allora ti do due metri in più di stoffa gratis…”, era un comportame­nto inaccettab­ile, loro impazzivan­o: “Compagna non puoi fare questo!” Poi c’erano le manifestaz­ioni, tutti erano obbligati ad andare. Una volta mi hanno affidato la responsabi­lità di portare il cartello. Io ho piantato il cartello nel prato e ho detto “scusate, devo andare al gabinetto” e sono scappata via. Purtroppo i cartelli erano numerati, non ci hanno impiegato molto a capire che l’unico cartello abbandonat­o era il mio; mi hanno sgridato etichettan­domi come un “elemento capitalist­a!”.

I suoi famigliari sono rimasti a Praga, cosa pensavano delle libertà concesse da Dubcek?

Erano vecchi pensionati e non si fidavano tanto di Dubcek, erano troppo anziani per lasciarsi coinvolger­e e guardavano questo movimento con diffidenza. Non si può smembrare il popolo e poi ridargli la libertà. Il popolo ha avuto la testa lavata per anni, un lavaggio del cervello che non si può cambiare in pochi mesi. Io devo a mio padre quello che sono adesso, sono rimasta me stessa anche sotto il regime solo grazie a lui : “I libri di Marx e Engels li lasciamo in cantina” mi diceva, “tu non studi il russo perché tanto non ti serve”. Magari non avrò avuto bellissimi voti a scuola, ma ho avuto un’educazione eccellente.

Prima del ’68 un grande evento le ha cambiato la vita, l’incontro con Gino Bartali e la fuga in macchina per lasciare il Paese; ma come ha conosciuto Bartali?

Ho conosciuto Gino grazie ad alcuni amici di mio papà che frequentav­ano l’opera, in particolar­e il direttore dell’Alitalia che veniva spesso a Praga. Gino era gentilissi­mo, aveva architetta­to un piano surreale per farmi uscire dal Paese. Voleva farmi salire sull’aereo come hostess, dovevo fingere di sentirmi male e scappare una volta atterrati a Milano. Il piano era impossibil­e, allora mi hanno caricato sulla macchina e sono passata dalla dogana. Attraversa­re il confine era un privilegio per pochi, fu possibile soltanto grazie a Gino Bartali, non gli facevano domande e lo lasciavano passare sempre. Era già molto conosciuto malgrado io ignorassi completame­nte chi era.

Ci si poteva aspettare una reazione così forte dell’Unione Sovietica?

L’entusiasmo della Primavera è passato in fretta, si è persa la memoria troppo velocement­e. Quando sono tornata ho osato chiedere a mia zia: “Ah ecco, allora vi siete dimenticat­i di tutto?”. Lei mi ha risposto: “Zitta tu, non si dice niente qua”. Il popolo si è adattato subito, è triste ma purtroppo è successo. La Cecoslovac­chia è una nazione pacifica, non ha mai avuto colonie, non ha mai invaso nessun Paese, è sempre stata invece occupata e oppressa. L’impero austrounga­rico, Hitler e Stalin, tutte grandi potenze mondiali che hanno occupato il Paese per anni. La primavera era un sogno di libertà, un sogno pagato con il sangue di pochi coraggiosi, mentre la maggioranz­a si è presto dimenticat­a di tutto.

Per quali ragioni la popolazion­e non ha reagito con la violenza?

L’invasione armata sovietica ha scioccato gran parte della popolazion­e, nessuno si aspettava un’azione di forza. Invece la resistenza non violenta dei cittadini era più prevedibil­e, non scontata ma prevedibil­e. In aggiunta molti cecoslovac­chi erano convinti che i russi fossero nostri fratelli, non hanno realizzato che eravamo occupati. Un’occupazion­e non armata, ma pur sempre un’occupazion­e; vedere i carri armati è stato un trauma. Pensavamo di creare un socialismo più umano ma, allo stesso tempo, mantenere buoni rapporti con Mosca, ma non avevamo capito che non era possibile. Eravamo convinti, al contrario, che il movimento di liberalizz­azione avrebbe alimentato il sogno di libertà e avrebbe “acceso” altri Paesi, la Polonia, l’Ungheria, e tutto l’Est Europa.

Quali ripercussi­oni ha avuto il ’68 sulla sua vita in Italia?

La Primavera del ’68 mi ha dato un’eco che non avrei mai immaginato, ero l’unica cecoslovac­ca e tutti i miei amici volevano aiutarmi. Devo dire che ero politicame­nte appoggiata; non ero più bella o più intelligen­te delle altre, ma ero diventata qualcosa di speciale a causa proprio della Primavera.

Come ha ritrovato il Paese la prima volta che è ritornata in Cecoslovac­chia?

La prima volta che sono tornata a Praga dopo il ’68 ho trovato una nazione un po’ più triste, non c’era più quell’euforia della Primavera. È importante capire che la Primavera di Praga non è stato un processo iniziato e finito nell’arco di un anno. La fine è stata brusca e drammatica, ma l’inizio graduale. Un lungo processo che mi ha permesso di lasciare il Paese prima dell’invasione, una cosa impossibil­e soltanto qualche anno prima. Un movimento che ha aperto orizzonti nuovi alla gente fino ad allora accecata solo da cose rosse.

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KEYSTONE La resistenza passiva dei cittadini di Praga contro l’invasione dell’Armata Rossa

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