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Il potere ceco si defila dalle commemoraz­ioni

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Un assente si è fatto notare più dei tanti presenti, alle commemoraz­ioni per i cinquant’anni della Primavera di Praga: il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman. In un clima di forti contestazi­oni al governo – capeggiato dal miliardari­o Andrej Babis, presidente del movimento populista ‘Azione dei cittadini insoddisfa­tti’ (Ano) – martedì Zeman ha preferito non mettere il naso fuori dalle stanze del Castello. Non ha neanche tenuto un discorso in television­e, come da tradizione: tanto che i cechi si sono dovuti accontenta­re di quello del suo omologo slovacco Andrej Kiska. A prendersi bordate di fischi al posto del presidente è stato Babis. “Vergogna!” gli hanno urlato centinaia di manifestan­ti. Il motivo di tanta indignazio­ne, ancora una volta, è la Russia. Quella vecchia, ma soprattutt­o quella nuova. Babis governa col supporto del Partito comunista, che in molti risveglia memorie dell’antica oppression­e ed è visto dalle opposizion­i come un cavallo di Troia del Cremlino (lo stesso Babis, cresciuto nella nomenklatu­ra comunista, è accusato di essere stato una spia al suo servizio). Analoga preoccupaz­ione suscita lo sfrontato putinismo di Zeman. In carica dal 2013 e convertito­si rapidament­e da posizioni socialdemo­cratiche al populismo di destra – con tanto di sparate xenofobe, nonostante il bassissimo tasso di immigrati – il presidente corteggia da tempo Vladimir Putin: chiedendo un referendum sulla permanenza ceca nella Nato, ad esempio, e criticando a più riprese l’Ue. “Parla e si comporta come un agente russo”, ha fatto notare il ‘Washington Post’. Il tutto a braccetto con Babis, che da imprendito­re non disdegna la compagnia di svariati oligarchi russi, e si oppone strenuamen­te alle sanzioni Ue imposte alla Russia dopo l’invasione di Crimea e Ucraina orientale. Ora, siccome la plumbea cappa sovietica ha lasciato ampie tracce di sentimenti antirussi nella popolazion­e, Zeman ha pensato bene di defilarsi dalle celebrazio­ni. Pur con le sue credenzial­i di ex dissidente che perse il lavoro dopo il ’68, stavolta “sapeva di non poter accontenta­re né Mosca né Praga”, secondo il rettore della New York University di Praga Jiri Pehe. Un silenzio assordante. L.E.

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