L’eredità dei tenori
Per i cronisti del tempo erano i tenori, le primedonne, i mattatori che, dal podio dei congressi, arringavano e persuadevano affollate platee; per l’opposizione, all’epoca rappresentata soprattutto dal Psa, erano i capibastone, l’incarnazione vivente del potere esercitato senza scrupoli. Di questa classe dirigente del Partito liberale-radicale, il partitone per antonomasia, si è parlato a lungo in occasione della scomparsa di Pier Felice Barchi. Effettivamente era la generazione che dettava la linea e indicava la direzione di marcia. Tutti maschi e quasi tutti avvocati. Le donne (...)
Segue dalla Prima (...) erano mosche bianche. Barchi presiedette il partito dal 1978 al 1988, un periodo ancora immerso nella guerra fredda, anche se all’orizzonte era già possibile scorgere le crepe di un’incipiente disgregazione. Un’epoca ancora dominata dalla contrapposizione Est-Ovest e da sacri furori ideologici, in un clima che il terrorismo imperversante nella vicina Italia aveva esasperato e reso cupo. A sinistra Pst e Psa battagliarono a lungo per assicurarsi il primato, trascinando nella mischia elettorale tutte le altre forze. La contesa produsse il «terremoto» del 1987, con la doppia presenza socialista in Consiglio di Stato (Bervini e Martinelli). Per contro a destra lo scontro investiva il ruolo dello Stato e l’interpretazione del liberalismo. Liberali o liberisti? La questione risaliva alla celebre disputa che, nel primo dopoguerra, aveva visto duellare Benedetto Croce e Luigi Einaudi: il primo fautore di una concezione prossima al socialismo liberale, il secondo sostenitore dell’economia di mercato fondata sulla libera iniziativa privata. Era fatale che tale scontro rinascesse nel Ticino politico, nelle redazioni dei due quotidiani concorrenti: da un lato l’organo ufficiale, il Dovere, dall’altro la fronda dissidente, Gazzetta Ticinese. Molte argomentazioni riprendevano temi dibattuti in tutto il continente, specie dopo l’ascesa al potere di Thatcher e Reagan. I numi tutelari erano per i primi Keynes, Dahrendorf e Bobbio; per i secondi, Friedman, Von Hayek e Laffer. Tuttavia lo scisma aveva radici remote, alcuni ragionamenti discendevano anche «per li rami» della tradizione interna, da sempre divisa in due tronconi, fin dagli anni dello storico contrasto tra l’ala radicale e l’ala moderata: da un lato Romeo Manzoni ed Emilio Bossi, dall’altro Rinaldo Simen.
Il ruolo dello Stato
Alle divergenze ideologiche e alle rivalità personali si aggiungeva un diverso modo di concepire l’intervento statale e in generale la funzione del settore pubblico, allora in forte espansione, in tutta Europa e non solo in Ticino. Nel Sopraceneri, bastione dei radicali, la tendenza era filo-statalista, con accenti socialdemocratici; nel Sottoceneri, invece, la corrente dominante reclamava a gran voce «meno Stato», sulla scorta di uno sviluppo che aveva promosso Lugano a terza piazza finanziaria della Confederazione, dopo Zurigo e Ginevra. Il confronto tra le due anime fu al calor bianco, tanto da mettere in pericolo l’unità del partito. «La cosiddetta “base” – osservò il direttore del Dovere Mario Gallino – non solo accetta ma anzi auspica che vi sia un vivace dibattito all’interno del partito. Non potrebbe essere diversamente, visto che un partito liberale senza dialettica sarebbe una contraddizione in termini. Ciò che non è più tollerata è la mancanza di rispetto reciproco, che è indice di scadimento culturale oltre che di pessima educazione».
Barchi nei panni del mediatore
Ed è qui che Barchi indossò i panni del mediatore, forte anche di una preparazione culturale a largo spettro, alimentata da letture storiche e sociologiche. D’altra parte erano gli anni in cui ogni partito avvertiva l’esigenza di avviare una seria riflessione interna, allo scopo di arrestare la lenta ma continua emorragia di consensi. Certo, a scorrere i giornali dell’epoca, i partiti principali appaiono ancora vitali e vivaci, ben strutturati e radicati nel territorio; agli appuntamenti accorreva pur sempre un folto stuolo di delegati, fedeli alla bandiera. Ma la luce che le formazioni di governo emanavano era sempre più fioca, in un contesto – come scrisse lo stesso Barchi nel maggio del 1987 – ormai esposto ad irreversibili «cambiamenti di scenari». Occorreva perciò mettere in cantiere «una accurata analisi dei mutamenti avveratisi nella società civile del Cantone negli ultimi venticinque anni e delle interazioni verificatesi tra i comportamenti sociali e quelli politici».
Il rapporto Jauch
Un compito simile lo si era dato anche il Ppd, partito non meno preoccupato del suo destino, affidando ad una commissione diretta dal professor Dino Jauch una dettagliata indagine sui mutamenti socio-economici in corso, entrata negli annali come «rapporto Jauch». Si è detto che quella stagione di forti passioni civili e politiche è tramontata definitivamente, e con essa le personalità che l’hanno animata, nel bene e nel male. È così. Da allora sono trascorsi tre decenni, il muro di Berlino è crollato portando con sé tutta l’impalcatura marxista-leninista; è arrivata la globalizzazione in compagnia di Internet, e poi il Trattato di Maastricht, la moneta unica, la terza o quarta rivoluzione industriale.
Capire i tempi nuovi
Rimane, da salvare, quella volontà di capire i tempi nuovi, il tentativo di aggiornare le categorie analitiche in base alle acquisizioni delle scienze umane, la necessità di investire nella cultura politica dei partiti, e in particolare dei gruppi dirigenti. Un’eredità da rimettere in campo, per contrastare un’involuzione che sta corrodendo i muri portanti dell’ordinamento democratico.