La farfalla bianca
Le cose che di solito mi rattristano, oggi mi rallegrano, mi fanno sentire vivo: Salvini in mutande nere, visto nelle pagine di cronaca del giornale, sprofonda immediatamente all’Inferno e lascia il posto ad esseri umani. Tutto rientra nell’armonia univer
Ci sono certe donne pallide che escono allo scoperto solo il mese di agosto, quando tutti sono al mare o in montagna. Allora smettono di guardare tra le imposte e di ritrarsi, come la chiocciola si ritrae dentro il guscio quand’è spaventata. Escono allo scoperto, s’avventurano. E provano, camminando da sole sulla strada deserta, una strana felicità. Talvolta le prende un improvviso pensiero, emerso dal passato. Un sorriso si disegna sulle loro labbra. Tumori malumori fetori si dileguano nel mattino e s’impossessa di loro uno stato d’animo dal quale è assente il dolore (…)
Segue dalla Prima Tumori malumori fetori si dileguano nel mattino e s’impossessa di loro uno stato d’animo dal quale è assente il dolore: ecco l’inspiegabile bellezza di un cespuglio fiorito ai margini dell’abitato, un ibisco dagli occhi azzurri, un angelo ritrovato… Sto pensando a queste pallide, qui, seduto al tavolino di un bar d’oltrefrontiera dove una sconosciuta mostra gambe abbronzate a uno con il gilet color sangue di bue che tenta di toccare le natiche alla cameriera. Un vecchio in shorts legge la Gazzetta davanti al bicchiere di bianco e una ragazzina con borsa nera ai piedi aspetta qualcuno, digitando sul cellulare. Le cose che di solito mi rattristano, oggi mi rallegrano, mi fanno sentire vivo: Salvini in mutande nere, visto nelle pagine di cronaca del giornale, sprofonda immediatamente all’Inferno e lascia il posto ad esseri umani. Tutto rientra nell’armonia universale, nell’immortale musica delle sfere celesti. Il mattino d’agosto rende il mondo abitabile. Al tavolo dei pensionati le piaghe della storia diventano fiabe. O fumetti. Stamattina si parla dei Savoia, davanti a una bottiglia di Prosecco: quello che qualche anno fa ha sparato a uno vicino al suo yacht; l’altro, il figlio, fischiato a Bellinzona dagli operai dell’Officina in sciopero; oppure, con un salto temporale, entrano in scena Curtatone e Montanara. A questo tavolo la memoria è ancora viva, anche se magari si fanno confusioni. Si confonde il piccolotto che aveva sposato la montanara con l’eroe scappato a gambe levate durante l’ultima guerra, o con quello ucciso a pistolettate da Gaetano Bresci a Monza più di cent’anni fa: ma non valeva la pena, morto un re se ne fa un altro.
Ora sono in vacanza in Valle d’Aosta, dove uno dei famosi Savoia a suo tempo sterminò più di uno stambecco. Sono in un paese della bassa valle e visito la chiesa parrocchiale, accessibile solo da un portoncino. Sugli altari laterali una serie di segnali stradali sono stati trasformati in guide morali. Su uno leggo, in caratteri cubitali: DIO. Ma è il segnale del senso unico, quello di pericolo o del dare precedenza? L’altare principale è una di quelle fiammate rococò fatte per stordire i fedeli con ori e colonne tortili. Non ci si può avvicinare. “Allarme inserito. Non oltrepassare il cordone”. Una volta, in un paese qui vicino, preso dal misticismo ho oltrepassato il cordone e ho fatto correre il parroco in maniche di camicia: qui rubano tutto e bisogna mettere l’allarme. Il sacro è ridotto a merce per rigattieri. Fuori della chiesa, seduto su una panchina davanti al torrente, ritrovo il sacro nel balbettio bilingue delle foglie di un pioppo cresciuto sul greto inselvatichito. Ma d’un tratto, mentre leggo il supplemento culturale di un noto quotidiano, ripiombo nel profano più desolante. Dice il foglio della domenica: “La poesia è diventata un genere letterario di terz’ordine (almeno nel senso che viene dopo la narrativa e la saggistica). La poesia in sé e come nome è un feticcio ideale, neppure più teorizzato, quasi privo di contenuti sufficienti a giustificarlo”. Dunque la poesia, lodata in passato come rigeneratrice di verità e apportatrice di salute, la poesia, che secondo Shelley è davvero qualcosa di divino, è decaduta, ai nostri giorni, a feticcio quasi privo di contenuti, secondo l’esperto. Eppure io credo che, nonostante tutto, sulla quantità di mediocri verseggiatori, esista ancora qualche poeta. Il poeta è un giardiniere: nel suo giardino segreto crescono fiori sui quali talvolta vola una farfalla bianca. Una ragazza vestita d’azzurro, con un gran cappello di paglia, passeggia sul ponte a schiena d’asino, sosta davanti alla Madonna nera: che perdona tutti, anche i razzisti. È pallida anche lei, la ragazza, come le donne che ho lasciato ai miei paesi, farfalle solitarie che non sapevano dove posarsi.
Adesso osservo, dal balcone della casa dove passo qualche giorno di vacanza, Roger che fa erba. Quel gesto antico come il respiro, il rumore della falce che fende l’erba, quel suono breve e ritmato poi ripreso, su una tonalità più acuta, dalla cote che passa e ripassa sulla lama, e seguito dal rumore sommesso del rastrello. Mi rendo conto che sto estetizzando la fatica di Roger: ma è solo un piccolo omaggio a gesti e suoni antichi che stanno sparendo dalla faccia della terra. Anche i richiami stanno sparendo: “vègn vègn” per le mucche, “töi töi” per le capre; e ogni capraio ha la sua variante. Oggi Virgilio – sentite che nome nobile? – sta chiamando le capre per allontanarle dai frassini e dai sorbi montani che danno sulle rocce del burrone. La pazienza gli fa compagnia. Quella pazienza che, secondo Leopardi, è la più eroica delle virtù, giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico. Io la vedo, questa virtù, nel gesto ripetuto di affilare la falce, nel richiamo delle capre, nel passo lento dell’accompagnare le mucche al pascolo. Ma per Roger ci vuole la guerra: la guerra contro quelli che sono al potere e guadagnano centinaia di migliaia di euro. Lui lì, con le sue sette capre… “Qui in valle bisogna dire Signorsì a quelli di Aosta, ma io non dico più Signorsì!”. Insiste sul concetto. Ha fatto l’operaio per vent’anni, nell’acciaieria il ferro fuso era colore del cielo. Poi è tornato ai suoi animali. Suo padre è morto perché non mangiava più: la malattia del non voler più vivere. Rivedo Roger a Issime alla battaglia delle capre, con Birba e Castagna, i numeri scritti in bianco sulla schiena. Le ha portate a giocare, dice. Ma non hanno voglia di battersi, non sono come quelle dalle lunghe corna ritorte – un villeggiante mi chiede “Ma sono capre o stambecchi?” – che s’inalberano e s’incornano. Birba, entrata in lizza, annusa l’avversaria, prende una testata, poi si avvia verso le transenne a cercare l’uscita, a farsi accarezzare da una bambina che le dà qualche filo d’erba. È una capra pacifista e mi fa pensare alle capre lunatiche e pietose di Giorgio Orelli.
Un paese comincia a essere anche un po’ tuo quando ci lasci dei morti. Ne rivedo alcuni, al cimitero del paese delle vacanze. Vedo, nei loro ovali fotografici, Elisa che accarezza un vitello, Firmino l’imbianchino silenzioso membro di una setta religiosa, Giulio dalla lingua pencolante tra le labbra, ma la voce era argentina e s’avvolgeva ai tronchi fiammeggianti dell’altar maggiore la domenica, Lorenzina coi gioielli da zingara avrebbe tanto voluto vedere la Madonna come la santa di Volvera, il grande invalido dal viso scolpito da una scheggia di granata che viveva solo con dieci pavoni e il fucile carico, la Maria Burota e i suoi pulcini nascosti nel cassetto della credenza, il messo del paese che si era fatto stregare dalla pugliese. Vengono a trovarmi un momento questo pomeriggio. Non trovo la tomba dell’impiccato. E vorrei sapere anche le storie di Amato, Perfetto, Orientina, Odette, Noé, Secondina, Clodoveo… Vorrei sapere le storie di queste donne e questi uomini che mi guardano con un foulard in testa o la camicia a quadri o la bandiera del Torino Fc avvolta alla croce di legno. Un paese comincia a essere anche un po’ tuo quando le cose si ripetono. Oggi, alla festa del Santuario, trovo lo stesso fisarmonicista dell’anno scorso e il microfono che amplifica canzoni nostalgiche davanti al grande gazebo. Quando attacca la Piemontesina bella, accanto a me uno di Asti over novanta si mette a canticchiare, marito di una vecchia che se ne sta immobile in carrozzella come un uccello ferito a fissare la tovaglia di carta mossa dalla brezza. Se ne sta lì, ancorata, e parla da sola. Quando il fisarmonicista la stordisce, volge il capo addolorato, dice, mi sembra, “In galera” e altre parole sconnesse. Il figlio, grassoccio e annoiato, la tormenta con un rametto di rosmarino, con affettuosa crudeltà. Si diverte a farle solletico sul collo, e quando capta il mio sguardo si porta il dito alla tempia come a dire “È fuori di sé”. Finché succede una cosa: qui, alla festa di Ferragosto, sotto il portico antico della Madonna della Guardia, mentre una ragazza down passa felice e contenta con la sua fetta di torta sul piattino di plastica e la moglie del vicentino magnagati in vacanza balla da sola il ballo dei Watussi, lei, la vecchia dalle labbra tremule, molestata dal rametto di rosmarino sul quale forse è volata una farfalla bianca, si mette a piangere in silenzio, senza lacrime.