Banche, allarme Trump
Discussioni a porte chiuse al mattino, lunghe passeggiate nel pomeriggio nel parco nazionale, con lo sfondo maestoso delle montagne del Grand Teton. Per i più audaci anche scalate e rafting sullo Snake River. Atmosfera distesa (ma anche molte defezioni, da Mario Draghi ai banchieri centrali di Londra, Tokyo e Berlino, fino allo stesso Ignazio Visco) al tradizionale simposio annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole, in Wyoming. Banchieri indistinguibili dai turisti (che, infatti, non li riconoscono) davanti alle grandi vetrate del lodge. Lontani gli anni post crollo della Lehman Brothers quando i banchieri di tutto il mondo arrivavano in un Jackson Lake Lodge che sembrava un fortino assediato più che un resort: discutevano in modo informale e si coordinavano lontani dai riflettori sulle cose da fare per evitare che la catastrofe finanziaria partita da Wall Street si trasformasse in una vera e propria depressione planetaria. Ma se l’emergenza è ormai alle spalle e se a far notizia quest’anno è stato solo l’esordio del neopresidente della Federal Reserve, Jerome Powell, con la sua conferma del percorso di graduale risalita dei tassi americani, nonostante la cosa non sia gradita a Trump, nelle conversazioni e nelle relazioni di economisti, banchieri centrali e capi degli organismi multilaterali non sono mancati i segnali d’inquietudine. I principali, quelli che fanno più notizia, sono legati all’impatto che l’irruenza e il populismo trumpiano possono avere sull’economia e sulla finanza. La Fed per adesso continua sul percorso tracciato, in materia di aumento dei tassi, ma non è escluso un rallentamento della marcia verso la «normalizzazione» nel 2019 e 2020, l’anno delle elezioni presidenziali, soprattutto qualora la crescita dell’economia dovesse perdere colpi. Anche per via delle guerre commerciali scatenate dallo stesso presidente americano: rischi molto discussi a Jackson Hole. Ma Trump crea allarme anche su altri fronti. Vista la sua diffidenza – se non addirittura ostilità – per gli organismi multinazionali, dalla Nato all’Onu, al G7, molti si sono chiesti se non sia da rivedere l’orientamento a scegliere Randal Quarles, il vicepresidente della Fed, nominato nel board della banca centrale Usa proprio da Trump, come prossimo presidente del Financial Stability Board. Fondato da Mario Draghi e fin qui presieduto dal suo successore Mark Carney (capo di Bank of England), l’Fsb, l’organismo internazionale che promuove nuove regole per evitare un altro caso Lehman, è uno strumento molto delicato. Vista la retorica anti-regole del presidente, il timore è che l’anno prossimo a Carney succeda un presidente di rottura. Non sarà così, hanno assicurato gli uomini della Fed, sottolineando che Quarles è già intervenuto per difendere l’Fsb dagli attacchi dei repubblicani. Una preoccupazione meno visibile ma più profonda che serpeggia tra i banchieri centrali è, poi, quella di essere attesi da un futuro da equilibristi. Costretti a un bilanciamento, forse impossibile, tra l’esigenza di alleggerire gli enormi fardelli che Fed, Bce e le altre banche centrali si sono caricati sulle spalle negli anni dell’emergenza e il rischio che questo venir meno dei sostegni all’economia produttiva irriti un’opinione pubblica sempre più insofferente e ostile alle istituzioni tradizionali, a cominciare proprio dalle banche. Trump è la manifestazione principale, quella di maggior peso, del diffondersi di stati d’animo populisti in tutto l’Occidente, oltre che in America Latina. L’impopolarità delle banche commerciali viene trasferita facilmente, nell’immaginario collettivo, a quelle centrali. E i governi, che pure devono alla politica monetaria l’uscita dalla crisi visto che di interventi efficaci di politica economica se ne sono visti pochi, potrebbero essere pronti a cavalcare il malumore popolare per ridurre l’autonomia di questi istituti. È di questo che si è parlato molto a Jackson Hole con Powell che ha ripetuto il monito già espresso qualche tempo fa durante un seminario in Svezia: «L’autonomia delle banche centrali non può essere data per scontata». «Quello del banchiere centrale è un mestiere tremendo», gli ha fatto eco il celebre economista Raghuram Rajan, ex capo della Banca centrale dell’India. «Cittadini e politici hanno perso fiducia in noi. E, quel che è peggio, i politici sono i più pronti a lanciare
mattoni contro di noi: un clima infernale». Preoccupato anche il capo della banca centrale canadese, Stephen Poloz. Lontani i tempi nei quali, in America, solo l’iperlibertario Ron Paul si lanciava in campagne contro la Fed proponendo di abolire con un tratto di penna l’istituto stesso della banca centrale. Adesso, col simultaneo aumento del costo del denaro e il ritiro degli stimoli all’economia e con le banche centrali che devono cercare di ricollocare sul mercato almeno parte dei titoli acquistati negli anni della crisi per sgonfiare bilanci cresciuti a dismisura, il timore è che quelle battaglie anti Fed, un tempo solitarie, divengano mainstream. «I banchieri avrebbero dovuto comunicare meglio l’importanza delle cose fatte», ha detto il capo della Banca per i Regolamenti internazionali, Agustìn Carstens. «Abbiamo dato per scontato che la gente apprezzasse il valore e i benefici dell’inflazione bassa e stabile che siamo riusciti a garantire per 30 anni». E la perdita d’indipendenza può innescare nuove crisi, è stato rilevato a Jackson Hole. Quella della lira turca è stata esacerbata dal fatto che il governo Erdogan ha impedito alla sua banca centrale di muoversi in autonomia. In Argentina, si è notato, le cose in passato sono andate nello stesso modo. Ora il governo Macrì ha ripristinato un po’ di disciplina fiscale e ridato autonomia all’autorità monetaria, ma i sacrifici che si sono resi necessari l’hanno reso molto impopolare: forte il rischio di sconfitta nelle elezioni del prossimo anno.